Pomodoro. Lo turbo e ‘l chiaro, in Arnaldo Pomodoro a Varese, catalogo, Università dell’Insubria e Museo d’arte moderna e contemporanea, Castello di Masnago, Varese, 5 dicembre 1998 – 14 marzo 1999 (prima parte)

“Una lingua scritta ideograficamente invece comporta tre elementi: significato, suono ed apparenza” (1). Non è certo casuale la compresenza, sulle pagine del primo numero di “L’Esperienza Moderna”, la storica rivista di Gastone Novelli e Achille Perilli, di un testo di Fosco Maraini sulla scrittura giapponese, e della riproduzione, tra le altre, dell’opera di Arnaldo Pomodoro Lo stagno: omaggio a Kafka, datante a quel 1957. In quello scorcio di anni Cinquanta, infatti, la via della maturazione di Pomodoro passa primariamente attraverso il dibattito – dibattito, da subito, internazionale – sul segno: un segno che si vuole, prima ancora delle declinazioni possibili, capace di farsi reagente intelligente della costituzione di una lingua plastica ulteriore, dopo l’impasse delle ormai evidenti degenerazioni retoriche dell’art autre; un segno che si sappia attivo, e portatore d’identità e qualità autonome.

Pomodoro, Tavola dei segni 1957, II, 1957

Pomodoro, Tavola dei segni 1957, II, 1957

In Pomodoro agisce da subito, primo dei numerosi tratti distintivi che sempre lo caratterizzeranno, tuttavia, una sorta di reticenza teorica che lo preserva da frastornanti architetetture ideologiche: reticenza che si sposa con l’insofferenza per gli intellettualismi da midcult tipici dell’ambiente italiano d’allora, e che fa sì che egli si nutra di straordinarie esperienze di cultura senza che ciò ingrommi l’intensità fabrile alla quale egli si affida. E’ questa la ragione di quella sorta di appartatezza, e incodificabilità delle sue esperienze rispetto ai modi correnti, che sin dagli inizi ne fa una sorta di unicum della ricerca artistica nostrana.

Pomodoro avverte, allora forse ancora in modo oscuro,  che la ragione del suo segno deve essere strutturante, e implicare una congenita cadenza decorativa: decorativa, s’intende, nel senso prosciugato e culturalmente schiarito che poteva intendere uno dei firmatari del manifesto Contro lo stile (2); decorativa in quanto capace di una qualità sensibile, fisica, non mediata, non proiettata a puro riverbero intellettuale.

Gualdoni: “A proposito del segno: il tuo è un sistema di segni tipici, leggibile come una sorta di genesi del codice, che mentre si declina già si corrode. E’ il punto ambiguo costituito tra simbolo, segno significativo, puro crampo formale…” Pomodoro:  “Sono tutti segni che hanno non un significato, ma una loro propria ragione significativa. Sono i nodi e gli snodi dell’esperienza. Sono segni in modificazione, che possono proliferare o scandirsi. La scrittura ne è teoricamente illimitata, è un racconto indeterminato. Negli anni Cinquanta ho frequentato Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, loro hano subito capito il valore di questo segno, che era un segno assolutamente nuovo, sia arcaico, primario, sia nuovo, ulteriore. La forma del segno è il suo senso: questa è la paternità che riconosco soprattutto a Klee”. G.: “E’ anche ciò che ti lega a Novelli e all’”Esperienza Moderna”…” P.: “Certo il segno era il problema di tutti gli artisti che partecipavano a quella aggregazione, così come poi al gruppo Continuità, da Novelli a Dorazio, da Turcato a Perilli. Ma ciascuno ha del segno un intendimento differente. Il segno di Novelli ad esempio è più legato a una sorta di scrittura decorativa – lui, scherzando sulla sua nascita austriaca, diceva di appartenere alla “scuola di Vienna”, è più barocco, poi si libera di tutto e arriva alla semplicità estrema di quadri come L’Oriente risplende di rosso, che possiedo e che amo moltissimo. Per lui vale la scrittura, per me il segno deve essere necessariamente indecifrabile” (3).

Pomodoro, Estensione vegetale n. 2, 1957

Pomodoro, Estensione vegetale n. 2, 1957

Il segno di Pomodoro può e deve essere un segno dai comosomi architettonici, nudo e sorgivo, scevro da grazie grafiche; scevro, soprattutto, dalle ipertrofiche oscillazioni semantiche che proprio in quel tempo al termine si vanno attribuendo. Valga al proposito, per sintesi esemplare, una testimonianza autorevole di poco successiva: “E’ estremamente imbarazzante parlare di simbolo oggi, in quanto la parola simbolo entra in concorrenza con molte altre (indice, segno, icona, allegoria, ecc.)”(4). Del resto, la scelta sua e del fratello Giò, in quel tempo ancora socio di bottega, matura non casualmente proprio nell’ambito di quel dibattito sull’integrazione delle arti che rende straordinari gli anni Cinquanta milanesi, e che per una stagione vede architetti, artisti, artigiani, tentare un’unica lingua visiva. Sono del 1958, tra l’altro, i “capitelli” realizzati in calco e gettata di cemento per la casa di via Canova progettata da Gian Domenico Belotti, e i lavori per l’altare della cappella del Villaggio della Madre e del Fanciullo di Francesco Mello e Aldo Scorzella-Mazzocchi; in sintonia con quanto vanno facendo maestri più maturi, Lucio Fontana in testa ma anche un Umberto Milani, un Vittorio Tavernari, e gli jungen compagni di via, da Roberto Crippa a Gianni Dova, da Emilio Scanavino a Francesco Somaini (5).

Sono, questi lavori, gli antenati dei “progetti visionari” che accompagneranno Arnaldo per tutta la vita, in una proiezione verso l’architettonico che già lucidamente la critica più complice e avvertita individuava in quell’epoca (6).

Inoltre la scelta dell’agire sulla misura dei rilievi, adattando anche modi tecnici dell’oreficeria a un genere che consente di praticare la bidimensione senza pagare scotto alle artificiosità retoriche del pittorico (7), fa sì che il segno si concreti da subito come morfema organico, dotato d’una sua propria fisiologia. E’ una sorta di radiante “logica del pensiero prealfabetico” (Leroi – Gourhan) per la quale conta tanto il segno quanto il segnare, il generarsi al mondo, per via di processo, di un grumo formale attraverso il quale il senso possa transitare: preventivo e ulteriore, anche, rispetto alle intenzioni che l’hanno generato: dotato di un’identità altra rispetto al codice presunto;  e forte, in quanto padrone di una identità oggettiva. Come nelle tavole cuneiformi, come nelle partiture grandi della protostoria per le quali un’architettura è, appropriatamente, un testo.

Pomodoro, Grande tavola della memoria, 1959-1965

Pomodoro, Grande tavola della memoria, 1959-1965

P.: “I miei segni di oggi sono semplificati, ma sono quelli che mi porto dietro da sempre, dalla Tavola dei segni del 1957. Ora sono diversi, si sono evoluti, sono cresciuti in queste forme totemiche architetturali:  sono il ricordo dell’obelisco, un obelisco senza trionfi però. Li ho concepiti vedendo le colonne dei grandi templi in Yemen, scritte che si consumano ma restano segni, segni forti. Io faccio segni moderni, ma  legati a questa memoria”.

Gli Orizzonti, le Situazioni vegetali, e poi i lavori di cruciale passaggio, la Tavola dei segni e, l’anno successivo, la Tavola dell’agrimensore: e fogli come quello, nitido e teso, che appare sul primo numero di “Azimuth”, 1959, nel crogiuolo d’esperienze che lo vede incrociare Castellani e Manzoni, Kemeny e Pieters, Holweck e Mack (8). Argento, bronzo, piombo, ossido di ferro, cemento: queste le materie, brusche, primarie, e di soppesata sensuosità, consapevoli di se stesse anche nella prospettiva del colore, che Arnaldo si sceglie. Per un verso, egli vi sconta taluni debiti climatici nei confronti di quella “poetica del muro” allora in auge tra molti sulla scia di lezioni come quella di Tápies (9); per altri, inaugura in modo sontuoso lo scambio forte tra una situazione materiale bruta e gurgitosa, aformale, e il decidersi di una trama di segni/cose che si cristallizzano in bellezza sospettosa per “segrete vie omologiche” (Barilli (10)); come phila genetici di un fermentare organico della materia che si fissa in queste cadenze minuziose di verticali/orizzontali, oppure di radiazioni circolari, oppure di nervature lunghe curvilinee; come un vero e proprio prender forma, attraverso segni, secondo una ratio imperscutabile. La minuzia proliferante di Wols, a sua volta mutuata dal segno decisivo di Klee, e il farsi/scomporsi del naturale nel segnare di Gorky e Tobey. Da subito la critica più complice (Ballo in testa (11)) vi legge i rapporti di complicità espressiva forte con un versante tra i più cospicui del contemporaneo: ma già notandone il diverso comportamento, quella sorta di furore melanconico che con pari lucida e incantata ferocia segna e disgrega: “diventano nell’immaginazione sempre più erose, rimangiate nella propria materia con un estroso moto di aberrrazione, di convoluto eraclitismo, come potrebbe dire il nostro C. E. Gadda”, scrive Gatto (12).

Pomodoro, La Colonna del viaggiatore, 1960, I, 1960

Pomodoro, La Colonna del viaggiatore, 1960, I, 1960

P.: “Io parto dalla nostra cultura, ho conosciuto il legno lavorato, l’osso di seppia, la fusione a cera persa, la macchina centrifuga, sono intriso di questa cultura: e quelle cose sono le nostre origini, ma hanno guadagnato un’identità diversa”.

La cultura dell’orafo – quel valore della techne come pensiero che facendo si sa, quell’accuratezza che è più del concepire, dell’auscultare i percorsi di forma, che del mero eseguire – conferisce a Pomodoro una capacità di sguardo dal minimo al totale, e di contaminazione tra soluzioni di grazia e sprezzature estreme, in virtù della quale s’intuisce che ciascuno di questi segni, di questi brividi plastici è certo di sé, del proprio esistere, tanto quanto del fatto che la sua condizione di senso non dipende che dal proliferare che verrebbe da dire cellulare, sino a un all-over teoricamente illimitato, certo indeterminato: secondo il sottile modello della quasi intraducibile relationship (13), che si attua in corpo di rapporti intimamente necessitati anche quando indecifrati, quasi in dubitosa implosione del modello rinascimentale che trascorre in congruenza acclarata dal minimo al tutto.

Organicità, codice, sistema, sono termini sui quali, in questo tempo, Pomodoro molto riflette: ma non certo per dar vita a organismi, codici, sistemi. Valgono, per lui, questi riferimenti problematici, come sorte di falsi bersagli (accadrà più avanti anche con altri snodi teorici, la perfezione, la geometria…) rispetto all’intuizione di quello che Risset ha indicato come “modello genetico dell’operare” (14), nel quale confluiscono parimenti l’intuizione della primarietà sorgiva del segno e le suggestioni del tempo/spazio infinito e oscuro che vengono a Pomodoro dalle conquiste della tecnologia e della scienza, a cominciare dall’avventura spaziale; il retaggio classico della forma formata e il vitalismo struggente dell’autre; un intendimento precocemente non soggettivo della materia e la pretesa lucida di stile (15).

Pomodoro, Lettera a K, 1965

Pomodoro, Lettera a K, 1965

P.: “All’inizio ero partito con i rilievi, sapevo con esattezza solo che non mi interessava la pittura, ma il costruire, la materia, la struttura. Ho cominciato a muovere queste superfici, ad articolarle secondo una cadenza più precisata, a immaginare un’organizzazione dei segni che nascesse da loro stessi. Si guardava molto alla tecnologia e agli studi scientifici in genere, in quel tempo, portatori di espansioni di conoscenza e di forme impreviste e straordinarie. Ho pensato che le forme dei radar erano insieme delle superfici, ma anche delle strutture plastiche tridimensionali, con quel loro curvarsi a convocare lo spazio. Ma la stessa cosa l’ho constatata, folgorato, in Messico, vedendo il cilindro del calendario azteco. Da qui sono nate le ruote, le colonne, poi le sfere”.

Curioso destino, il viaggio messicano del 1961: la cultura mesoamericana del disco della Piedra del Sol di Tenochtitlan e la colonna istoriata di Tajín Chico, delle steli di Copán e Quiriguá e dei grandi rilievi architettonici di Uxmal. La scultura/architettura centroamericana è per Pomodoro ciò che il disco di Phaistòs sarà, di lì a un anno, per il sodale Novelli: un luogo plastico di segni, una macchina di senso che il tempo può metamorfizzare, non far trascolorare. Entrambi, Novelli e Pomodoro, si aggirano per corsi diversissimi attorno a questioni assai affini: del 1962 sono le due versioni di Cubo di Novelli, parallele alla shape erosa Il cubo, 1961-62, di Pomodoro; nel 1964 “Grammatica” pubblica Disco n.1 di Arnaldo e insieme le montagne gessose Schönberg und Sonnenberg dell’amico: “Novelli era la persona con la quale io mi intendevo di più” (16).

La prima versione della Colonna del viaggiatore data al 1959, e inaugura la piena maturità di Pomodoro. L’artista vi saggia, in primo luogo, un consistente scarto dimensionale. Le proporzioni regolari dei rilievi lasciano il campo a uno svolgimento marcatamente verticale, come di stele o di lesena, come di colonna che non affermi assertivamente il proprio volume; in pari tempo, la suggestione è di un cartiglio, di un rotolo di scrittura svolto e consistente, vuoi in piano vuoi, con intuizione sottile della valorizzazione della concretezza fisica dei segni, in uno scarto concavo/convesso in grado di scandire l’incidenza luminosa senza cadere in retoriche pittoricistiche. La serie tutta delle Colonne del viaggiatore ragiona su due punti chiave. Da un canto, è il metamorfizzarsi della pagina plastica precedente in un vero e proprio campo energetico di scrittura, una scrittura che possa dipanarsi in prospettiva non solo mentalmente indeterminata, organizzandosi in zonature che valgano come momenti di comportamento diverso del continuum segnico. I segni assumono dimensioni e rilievo diverso, assumono soprattutto fisionomie differenti in odore di stabilizzazione formale – quanto meno, di regolarizzazione dell’arbitrio fabrile – così da offrire alla lettura un tempo di percorso (Novelli avrebbe detto “pascolo dell’occhio”) relativamente teso e omogeneo per frequenza, tanto quanto assai variegato in termini di carattere, un carattere di cui sia responsabile la cadenza e la dinamica delle movenze visive.

Ballo dice del “ritmo monodico” di questi segni, e spende un riferimento precoce alla musica elettronica, ponendo accortamente l’accento sulla priorità dello sviluppo, del progress, rispetto alla natura e qualità dei singoli monemi plastici. E’ ben vero ciò, ma a patto di estendere l’attenzione ad altre implicazioni non trascurabili. La suggestione dell’elettronica scaturisce dall’imperscrutabilità di questi segni, da quell’intelligenza dell’effetto – così padroneggiata da Pomodoro – consistente nel determinare un clima visivo complessivamente straniato, slontanato, algidamente estraneo al sentire comune. Inoltre, è pur vero che l’artista assume e con sovrana souplesse sovrappone e contamina al sapore di grafemi arcaici logorati e adespoti (Risset spende assai a proposito una citazione di Lacan: “un crittogramma assume tutte le sue dimensioni solo quando è quello di una lingua perduta” (17)) la fascinazione tecnologica dei circuiti elettrici, di una macchinosità complessa e puntuta – penso soprattutto a lavori come la Grande tavola della memoria, 1959-65, o il Bassorilievo del 1966 – eccitante ansiosi trascendimenti sensuosi, dai lucori del metallo polito a certe opacità come oleose, quasi in un barocco prosciugato e nevroticamente moderno.

Pomodoro, Sfera n.1, 1963

Pomodoro, Sfera n.1, 1963

(Sia consentito un a parte purtroppo tuttora doveroso. Ancora in un articolo recente in “San Francisco Chronicle” si dice per Pomodoro di “architetture futuristiche come si vedono nelle vecchie illustrazioni di science fiction” (18): è immaginabile che il recensore americano abbia, lui sì, avuto contezza delle “architetture futuristiche” attraverso la fantascienza, ma che tale sia stato il percorso culturale di un artista cresciuto a Milano, e fianco a fianco con Fontana, e autore di quel Colpo d’ala, 1981-84, che rappresenta uno straordinario omaggio a Boccioni, è quanto meno paradossale credere. Inoltre, un banale ragionamento sulle date sta a indicare che, semmai, proprio la scultura di Pomodoro è creditrice, e dagli anni Sessanta quando divenne assai popolare, di troppe iconografie del futuribile vulgate dal cinema…).

Tuttavia, lo svolgersi della partitura segnica riferisce, più che alle architetture spaziose della musica di ricerca, allo stream fluente e serrato tra sonorità e fraseggio, giusta anche la plenitudine e l’illimitatezza possibile di svolgimento, e la licenza continua degli arbitrii e degli ad libitum, del jazz, con atmosfere che – sia permessa la suggestione forse personale – si avvertono in uno Stan Getz, in un Jimmi Giuffre, in un Miles Davis. Inoltre, da subito Pomodoro mostra di distillare, all’interno dell’universo del possibile, una sorta di lessico preferenziale: il quale, s’è già accennato, non si vuole sistema, ma del sistema esibisce le parvenze. La matrice intellettuale di questo repertorio fondamentale è certo da reperire in una certa idea di costrutto architettante tipica dell’avanguardia sovietica, Tatlin e Pevsner e Gabo in testa, nutrita inoltre, anche se in modo carsico, di umori surrealisti. La contraddizione tra il dipanarsi grafico, che chiede andamenti tendenzialmente orizzontali anche in virtù dell’aspettativa dello spettatore, il quale percepisce questa tramatura superficiale come introversissimo testo, e la struttura oggettiva dell’opera, di forzata verticalità, mantiene tuttavia ben vigile la consapevolezza che si tratta di una realtà spaziale e fisica propria, mimante i comportamenti analogici della scrittura, della pagina, ma solo per indurvi un sostanzioso straniamento: e per porre così – è questo il secondo punto chiave – in modo assai preciso ancorché non esplicitamente programmatico la questione della superficie scultorea come plesso volumetrico, come soglia e momento/limite decisivo non solo per il sembiante dell’immagine, ma per la natura stessa del suo darsi al mondo.

Note. 1. F. Maraini, Il segno nella scrittura giapponese, in “L’Esperienza Moderna”, 1, Roma, aprile 1957. 2. Il manifesto è firmato nel settembre 1957 da Arman, Enrico Baj, Bemporad, Gianni Bertini, Jacques Calonne, Stanley Chapmans, Mario Colucci, Dangelo, Enrico De Miceli, Reinhout D’Haese, Wout Hoeboer, Hundertwasser, Yves Klein, Theodore Koenig, Piero Manzoni, Nando, Joseph Noiret, Arnaldo Pomodoro, Giò Pomodoro, Pierre Restany, Saura, Ettore Sordini, Serge Vandercam, Angelo Verga. Vi si legge tra l’altro: “Noi affermiamo l’irrepetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come presenza modificante in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze”. E’ leggibile in T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra, Schwarz, Milano 1957, p. 298-299. Notevole è la presenza di Pomodoro in alcune manifestazioni del periodo: da La terra, il ferro, il fuoco alla galleria Pater, Milano, 1956, con Fontana, Baj, Dangelo e Giò Pomodoro, a Arte nucleare al Centro San Fedele, Milano, 1957. Sulla presenza di Pomodoro nell’ambito nucleare cfr. G. Anzani (a cura), Arte nucleare 1951 – 1957. Opere testimonianze documenti, catalogo Galleria San Fedele, Milano, 1980. 3. Questo brano, così come i successivi riportati in corsivo, è tratto da alcune conversazioni con Arnaldo Pomodoro avvenute nel luglio 1998 nel suo studio milanese di via Vigevano. Altre testimonianze preziose dell’artista si leggono nel libro/intervista A. Pomodoro – F. Leonetti, L’arte lunga, Feltrinelli, Milano 1992. 4. A. Guaraldi, in R. Giorgi, Cultura del simbolo in Italia, II, in “Marcatré”, 30/33, Milano, luglio 1967. 5. Una partita ricostruzione della vicenda è P. Campiglio, Esempi di ‘sintesi delle arti’ a Milano negli anni Cinquanta, in F. Gualdoni (a cura), Milano 1950 – 1959. Il rinnovamento della pittura in Italia, catalogo Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1997. 6. Si veda ad esempio G. Dorfles, A. e G. Pomodoro. Creazioni plastiche, in “La Biennale”, 34, Venezia, gennaio – marzo 1959, che per Arnaldo dice esplicitamente di “carattere architettonico”. 7. Una ricostruzione storica della pratica del rilievo è Aa.Vv. (a cura), Reliefs, catalogo Kunsthaus, Zurigo, 1980. 8. In “Azimuth”, 1, Milano, 1959 figurano opere di Johns, Fontana, Rauschenberg, Megert, Angeli, Klein, Dorfles, Giò Pomodoro, Schwitters, Castellani, Rotella, Arnaldo Pomodoro, Bonalumi, Holweck, Manzoni, Mack, Tinguely, Fischer, Kemeny, Piene, Wagemaker, Romijn, Schoonoven, Dahmen, Sanders, Bohemen, Schumacher, Tajiri, Pieters, Novelli, Piene, Rossello, Dorazio, Manzoni, Estienne, Dangelo, Marotta, Lora, Pena. Si tratta di uno dei più acuti repertori della cultura di passaggio dal clima latamente postinformale alle più precisate poetiche degli anni Sessanta, in ambito internazionale. 9. “Mi colpisce la costruzione architettonica che riesce a dare al quadro: che è un dettaglio ingigantito, dove non vedi mai l’intera struttura e guardando ricordi un particolare, un segno soltanto…”: così Pomodoro su Tápies in L’arte lunga, cit., p.50. 10. R. Barilli, Pomodoro, in “Studio Marconi”, 6-7, Milano, 1976, ora in Informale Oggetto Comportamento, I, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 227 –230. 11. G. Ballo, Arnaldo Pomodoro: terre e metalli, catalogo galleria dell’Obelisco, Roma, 1957; Idem, Continuità, catalogo galleria Levi, Milano, 1962. Oltre ai riferimenti indicati, Ballo è il più esplicito nell’indicare, nel testo del 1962, il rapporto tra l’azione iterativa di questi segni e i tagli di Fontana. 12. A. Gatto, Giò e Arnaldo Pomodoro, catalogo galleria del Cavallino, Venezia, 1956. 13. Proprio di recente ci offre una gustosa analisi della difficoltà di trasferimento di codici culturali da una lingua all’altra L. Meneghello, La materia di Reading e altri reperti, Rizzoli, Milano 1997, pp. 41-43, riferendosi tra gli altri anche al termine relationships. 14. J. Risset, Il movimento duplice, in I. Mussa (a cura), Arnaldo Pomodoro. Luoghi fondamentali, catalogo Forte di Belvedere, Firenze, Fabbri, Milano 1984, p. 18. 15. E’ sintomatico rilevare come, con significativa precocità e, s’è detto, antiteorico procedimento, Pomodoro giunga a chiarirsi valori sui quali solo in seguito il dibattito artistico giungerà ad aggiornarsi: si pensi che Michel Tapié, riferimento di molta arte europea di punta, scrive di Morphologie autre nel 1960 (Pozzo, Torino) e organizza la mostra Strutture e stile nel 1962. Per quanto riguarda le suggestioni “spaziali”, nelle quali tanta parte ha il rapporto non scolastico dell’artista con Fontana, la mediazione può essere quella di immagini inquiete e inquietanti come l’Allevamento di polvere di Duchamp, 1920, e certe prove di Fontana come quella per la memorabile copertina di “Domus”, 302, 1955. 16. Cfr. “Grammatica”, 1, Roma, novembre 1964. “Grammatica” è per molti versi la ripresa e la prosecuzione della vicenda avviata con “L’Esperienza Moderna”. La citazione di Pomodoro è in L’arte lunga, cit., p. 42. Su Novelli cfr. Z. Birolli, Novelli, Feltrinelli, Milano 1976; F. Gualdoni, Le tue parole inciampano nelle mie estasi. Gastone Novelli. Opere su carta, catalogo Padiglione d’arte contemporanea, Milano, Mazzotta, Milano 1983. 17. J. Risset, cit., p. 20. 18. K. Baker, Pomodoro’s Sculpture Consistent Over Decades, in “San Francisco Chronicle”, 21 maggio 1998.