Antonis Donef
Antonis Donef, Pivateview, Torino, 26 maggio 2016
Un’affermazione dell’Henri Michaux di Passages soccorre subito, all’approccio con i lavori di Antonis Donef.
“I libri sono noiosi da leggere. Nessuna libera circolazione. Ben diverso il quadro: immediato, totale. A sinistra, così, a destra, in profondità, a volontà. In un momento tutto è lì. Tutto, ma niente è ancora conosciuto. È qui che bisogna cominciare a LEGGERE”.
Dunque, una dimensione del leggere che comporta non l’univocità ma la radianza del senso, non la tassonomia del pensiero ma la sua conflagrazione, l’ekpyrósis del significato, la deriva sfarzosa e arbitraria entro un luogo acentrico, sfuggente, mobile ma proprio perciò non mortalmente ordinato.
Mettendo a punto il proprio processo Donef muove da un approccio complesso e criticistico di messa in mora dell’ordinario di ciò che la convenzione chiama sapere, riaffermando il potere di lucidità d’un vedere capace di farsi condizione essenziale del pensiero: con Rimbaud, “ho visto a volte ciò che l’uomo ha creduto di vedere”.
L’artista compie un percorso involutivo sino a una sorgente significativa, sino a un grado zero che non sia la cancellazione troppo spesso auspicata dalle neoavanguardie, che non sia un’assenza, ma un punto originario. Il grado zero linguistico indeuropeo *gr̥bh- è quello dai cui rami discendono gráphein e grámma, che attiene al segnare prima d’ogni distinzione, dunque disegnare e scrivere, e molto altro: ed è ciò che Donef ha subito intuito.
Dunque egli assume il luogo topico e sociale della scrittura, il libro, e ne scava dall’interno l’identità, sino a perderla. Accumula dapprima reperti della storia di quell’oggetto chiamato, con il Borges di Evaristo Carriego, “volumen, un prisma a sei facce rettangolari composto di sottili lamine di carta che devono presentare un frontespizío, un’antiporta, un’epigrafe in corsivo, una prefazione anch’essa in corsivo, nove o dieci capitoli che cominciano con la lettera capitale, un indice del contenuto, un ex libris con una clessidra a sabbia e con un motto latino, un conciso errata corrige, alcune pagine bianche, 1’indicazione ben spaziata della tipografia e la data e il luogo di stampa: oggetti che, come si sa, costituiscono 1’arte dello scrivere”.
I libri sono annosi e provengono dai territori della loro dispersione, quando già l’orgoglio del loro essere architetture di significato, paradigmi d’un ordine – è il caso, soprattutto, di enciclopedie e repertori – ha iniziato a trascolorare verso l’inutilità che ne fa oggetti collezionabili magari, ma non leggibili, perché declinanti e declinate sono le condizioni al contorno che li rendevano autorevoli. Si combinano, sugli scaffali o ammucchiati, secondo alea, evenienza, destino, ciascuno portatore in origine d’un codice – la lingua in cui son scritti anzitutto – e di qualcosa che era stato sapere, prescrizione, espressione, ma è ormai solo sussistenza smemorata.
Con i fogli di quei libri Donef compone veri e propri arazzi teoricamente illimitati, atlanti di un’atopía con il valore rituale atavico dello smembramento e della ricostituzione in altro del corpo sacro, che si fa passo ambiguamente estetico implicando la qualità fisica e visiva d’ogni pagina nell’apparire complessivo come stratificazione e apposizione di colori, spazi, strutture, apparati di segni deidentificati.
Non è, beninteso, una forma d’ordinaria biblioclastia. Ben lungi dalle intenzioni di Donef è l’approccio distruttivo e dimostrativo, a qualche titolo ideologico. Il meccanismo è piuttosto affine a quello del détournement, dell’iperdeterminazione che agisca come forma caustica di collasso, del collezionare/collazionare sino allo smarrimento ch’è stato, anche, d’un artista come Boetti.
Stabilendo la superficie già visivamente satura, d’insensato fascino, l’artista non ha tuttavia che perimetrato un territorio, l’ubi consistam da cui e entro cui agire con atto fervido d’arbitrio: è palinsesto straniato d’altre grafie, che affaccia il suo trascorso esser volto d’un sapere come chiedendo un ulteriore possibile statuto d’esistenza.
Donef, cui certo è famigliare e grato il tempo lungo, intensivo, verrebbe da dire lenticolare, del fare come condizione privilegiata della riflessione espressiva, da questo processo elaborante muove verso un’altra fase processuale, quella in cui egli prende a tramare interventi grafici – inchiostro su inchiostro, dunque – a partire da elementi marginali dei fogli sottostanti, oppure in pura contraddizione con essi, in una forma di devianza il cui jeu si consente licenza sino a citare il graffito infantile e quello anonimo.
Donef decide un innesco grafico, e a partire da esso sviluppa una sorta di fluenza insieme concatenata e impreventiva che si dipana, emancipata nello spazio – à la Michaux, in libera circolazione – e senza un ordito preventivo, come fluenza che segue logiche tutte introverse e si concede all’accidente, allo scarto improvviso, in una sorta di proliferazione apparentemente disorientata.
Molte suggestioni tornano alla mente qui, a cominciare naturalmente dalle ovvietà grafiche rimontate da Max Ernst in opere come Répétitions, Les Malheurs des Immortels, Une semaine de bonté, e dai cadavres exquis visivi che vantano una tradizione lunga, dal surrealismo storico a figli nobili come Oyvind Fahlström e Dieter Roth e a nipoti problematici come Jake e Dinos Chapman. Ma c’è anche la memoria della pura iterazione di motivi in continuo come in certa grafica d’umore psichedelico, e un gusto per il collazionare schegge collidenti come nelle visioni Fluxus meno ideologiche, e nei Chiasmages di Jiří Kolář.
La questione, per Donef, non è naturalmente stilistica. I suoi percorsi d’automatismo aided producono la sovrapposizione di grafia a grafia, di segno a segno: sempre inchiostro, sempre carta, ma ora una geografia deviante e deviata, soggettivissima: in cui il senso si produce per concatenazione di contingenze, in una sorta di fastosa sismografia intellettuale, emotiva, visionaria.
Molti anni fa Chuck Palahniuk ha scritto che “nessuno di noi ha più una lingua madre”, e Donef ne fa esperienza quotidiana. Ma se un codice, un sistema di policies, rules and regulations che si nutra di un valore e abbia un destino vien disperso, ecco che la ricostituzione di un’identità è altrimenti possibile, passa per binari che non sono necessariamente quelli di un ordine ulteriore: e che, necessariamente, non possono condurre a opere portatrici d’un titolo arrogante.
Egli si fa così padrone d’uno spazio e, più, d’un tempo precisato e reso straordinario. È luogo di consapevolezza, di esercizio inflessibile e felice del pensiero e del fare, di densità.
Leonardo scrive in un appunto che, se l’artista non è retto da consapevolezza feroce, dalla coscienza profonda della necessità dell’immagine, la sua opera “dimostrerà veramente i corpi due volte morti”. Non è, questo, il caso di Donef.