Vittorio Tavernari
Vittorio Tavernari, Appunti per una poetica, in M. De Micheli, Scultura italiana del dopoguerra, Milano 1958
Non parlerò, forse, di scultura: essa è per me, come ogni arte per l’artista, un mezzo per esprimere me stesso e le mie verità più profonde: sentimenti, sensazioni, esperienze, memorie.
Perciò mi pare inutile parlarne, e ritengo più giusto dire quali sono le cose che più mi interessano e che maggiormente premono. Non ho idee prefisse, archetipi da inseguire: quando inizio una scultura ignoro cosa ne uscirà: essa nasce, via via, per necessità interiore, una necessità complessa, di sentimenti e di cultura anche, non di razionalizzato programma.
Credo con forza alla materia che uso, sia essa legno o gesso o creta o ferro, purché mi offra, in quel preciso momento, la possibilità di esprimermi, mi dia modo di sfogare, di dar vita a quello che ho dentro e che non può starsene chiuso.
Il mio interesse è rivolto soprattutto alla figura umana, o, per essere più esatti, all’uomo-individuo, forma e contenuto: direi che in una figura femminile si possa leggere tutto del mondo e della vita, dalla oscura germinazione misteriosa alla dolcezza, al dolore, al piacere, alla indicibile realtà della vita stessa.
Per me, da anni ormai, non esiste quindi che la possibilità, quotidiana, di scoprire la vita attraverso il soggetto della figura: dove si incontrano e si fondono le realtà esterne a quelle, sotterranee, dei miei sentimenti dell’ora. Ed è qui, in questo limite, indecifrabile spesso, che si fa realtà il dibattito, a volte tragico e non mai senza peso, della mia faticosa giornata di uomo.
Le contraddizioni, le ricerche, le lancinanti ore del dubbio: in una materia qualsiasi tento di chiarire, a me stesso, questa situazione; di armonizzarla, di illimpidirla, per sopravvivere almeno.
Certo mi sarebbe più facile, più liscio, esprimere e dire me stesso e le creature se fossi legato ancora ad un credo formale, sicuro, che – se non altro – avesse una maggioranza, fosse comprensibile ai molti: ma come è possibile che io creda, mi inginocchi ad un credo esterno se tutto, dentro di me, rivela una necessità prepotente di nascere, così come nasce, di farsi verità dopo essere stato un imperativo metafisico?
Di una cosa, proprio, sono certo: di non credere più a nessun formalismo, poiché esso nasce e affonda le sue radici fuori dal nostro tempo e perché esso impone di parlare con linguaggi altrui, d’accatto. E credo all’uomo e alla sua perenne e insopprimibile voce viva perché troppo mi atterrisce l’immagine che esso possa disumanizzarsi fino alla civiltà dell’atomo, pensare che della propria realtà egli possa fare baratto, forse fatale, colla esatta malinconia della scienza: e – se mai avvenisse – mutare tanto profondamente da divenire irriconoscibile.
Da quanto ho detto, mi pare, deriva la conseguenza logica della mia posizione di scultore “organico”: le creature che nascono dall’interno, che sono nostre dal primo lievitare della materia sotto le mani al loro congedo ultimo: e che rimangono vive, nel nostro tempo, e già fuori dal tempo, e da noi: ma nostre.