Spagnulo
Giuseppe Spagnulo. Un’antropologia presente, in “Alfabeta2”, II, 15, Milano, dicembre 2011
Giuseppe Spagnulo e Flaminio Gualdoni. Una conversazione. Milano, 11 novembre 2011.
Spagnulo, tu nasci dal lavoro con l’argilla, nel clima già postinformale con cui si avviano gli anni ’60. Poi, dopo poco, ti si ritrova a realizzare grandi sculture in ferro che invadono lo spazio urbano. Memorabile per molti è Black Panther che nel 1970 invade via Borgospesso a Milano, di fronte alla storica Libreria Einaudi di Aldovandi…
In effetti nasco scultore che maneggia la terra, ma senza nessuna passione per la disciplina del ceramista. Alla metà degli anni ’60 comincio a soffrire i limiti dimensionali della ceramica, e prendo a frequentare altre materie. Prima di incontrare il ferro, per un breve periodo sperimento anche il legno. La grande dimensione dell’opera è essenziale, nella mia concezione, sin da allora.
Grande, beninteso, che non significa monumentale. Significa dotata d’una misura interna che la lascia espandere, che ha a che con l’orizzonte e la gravità e l’aria. Black Panther è del 1969, quindici metri di base per otto di altezza, ma già nel 1968 era nata Amadigi, e di lì a poco verranno La grande trappola e altre opere di questo genere. La mia prima presenza alla Biennale di Venezia, nel 1972, è con opere di questo genere.
Ma non si è trattato di un rifiuto del plasticare. Alla terra torni più e più volte sempre, lungo tutto il tuo percorso.
Intendiamoci, non si è trattato di un rifiuto. La terra era per me quella di Lucio Fontana, del mio sodalizio giovanile con Nanni Valentini. Aveva a che fare con il mito mediterraneo, con la sorgività dell’archeologia…
Quello che rifiutavo era solo il dato di mestiere, la retorica della bottega. La parte che mi avvinceva e che continua ad avvincermi è che, anche se sembra paradossale, la terra e il ferro, l’acciaio, hanno molto in comune, ed è la loro an-esteticità di partenza, la loro neutralità. Ti metti di fronte a un blocco di marmo, ed è già bello in se stesso. È materia con una qualità intrinseca, con un pregio.
Il blocco di ferro o la vasca di argilla cruda non sono nient’altro, prima che tu instauri quel rapporto tra complicità e agonismo che fa nascere l’opera. Non devi valorizzarli né devi trasfigurarli: il loro è un prender forma primario, in cui, se vuoi, è impossibile la retorica. Ed è un prender forma in cui ha gran parte il fuoco, un processo che ti mantiene vicino all’origine del formarsi, che fa diventare forma una materia amorfa.
Parli di primarietà, ma ciò che accade nel tuo lavoro tra anni ’70 e ’80 ha poco a che fare con i nuovi geometrismi delle strutture primarie, del minimalismo, eccetera. Oltretutto, in un momento in cui funziona ancora moltissimo la logica dei raggruppamenti, tu tendi a sottrarti a quelle faccende…
A me interessa una primarietà sorgiva, che da subito ha a che fare con una sorta di antropologia presente piuttosto che con l’ideologia dell’arte. Che poi nel lavoro con la terra uno si senta molto coinvolto dal punto di vista fisico, corporeo, e realizzando i Ferri spezzati, i Cerchi spezzati, i Piani spezzati, l’esperienza sia tutta diversa, conta poco. Così come la questione della forma non è quella della sua essenzialità intellettuale, la sua nuda ostensione ontologica. Nei miei lavori c’è un processo, un tempo, un lavoro, che segna l’identità dell’opera.
Quanto al non “far famiglia”, non è che mi sia ritratto dalla politica dei gruppi. È che non mi è mai veramente interessato. Ho coltivato negli anni grandi amicizie artistiche, penso a Dadamaino, a Gastini, a Mattiacci, a Icaro, a prescindere da quello che succedeva negli studi. È stato ed è meno strategico, ma molto più vitale, umanamente.
In effetti ho sempre riflettuto sul fatto che nel lavoro con la terra si crea un’intimità fisica molto forte, e che tutto accade per tempi lenti, scanditi, non aggirabili a prescindere dal modo. Quando affronti l’acciaio, sei in una grande fabbrica, ci sono le macchine, ci sono operai che agiscono con te, l’operazione è rapida e potente. Cambia molto.
Sai, se uno esce dall’ideologia delle tecniche artistiche e si concentra sul senso profondo del lavoro, tutto ciò non è così essenziale. Nella fabbrica, pensaci, c’è sangue vero, e le mani degli artefici che ci lavorano hanno una sapienza precisa, che tu devi capire nel profondo. Le macchine, poi, fuor di mitologia, sono prolungamenti complessi della mano e basta. Nella fabbrica puoi far avvenire un processo che le tue braccia e le tue mani da sole non potrebbero svolgere. Tutto qui. Quando rifletti che una pressa può esercitare una forza di quarantamila tonnellate su un blocco di acciaio, assumi con te una facoltà di modificazione del materiale che può diventare qualcosa.
D’altronde, il tuo lavoro non nasce mai da un progetto affinato. Ha una concentrazione, anche temporale, in cui si avverte che, come recita il proverbio, il cammino si forma sotto i passi.
Per me è fondamentale. Non sono mai io che, arbitro assoluto e arrogante, decido la forma. Nel processo accadono molte cose, anche l’accidente è essenziale e può far succedere qualcosa che genera senso. E poi proprio la difficoltà, quel senso vagamente titanico che il lavoro con il metallo ti impone, impedisce che ti lasci andare agli estetismi: o arrivi subito al punto, o niente.
Per me, ad esempio, è essenziale che la scultura non aggredisca lo spazio e lo spettatore con il suo peso, con la minaccia della sua sagoma. Anzi, è come se alla fine queste opere pesantissime si presentassero scordandosi e facendoti scordare il loro peso.
Quando ho esposto a Marradi Le ali di fuoco, in omaggio a Dino Campana (“Con ali di fuoco i lunghi rumori fuggenti / del tram spaziavano”: è Notturno teppista, straordinaria), uno spettatore non mi ha chiesto quanto pesasse, ma se non avevo paura che il vento la muovesse: non gli importavano le ventidue tonnellate, aveva capito l’equilibrio puntuale, il suo essere qualcos’altro che semplice materia greve…
E quando hai realizzato a San Paolo fuori le mura a Roma il memoriale dei morti di Nassirya, nel 2008, hai semplicemente conficcato diciannove barre di ferro di cinque metri nel terreno, proprio come i kolossoi preistorici di cui parla Jean-Pierre Vernant, vere figure di sostituzione, veri “doppi” degli individui che non ci sono più.
Non c’era nessun monumento da fare. C’erano diciannove ragazzi morti. E noi. Questo è la scultura, non altro.