Cinque artisti giapponesi, in “La Ceramica”, 27, Milano, dicembre 2015

Cinque artisti, tre generazioni per dire della continuità straordinaria dell’arte della terra giapponese: fuor di retorica, unica. Che è ben più di una tradizione, ancorché affondi le proprie radici in una vicenda davvero millenaria e conti su una diffusione e su una qualità della pratica in cui sempre ben si legge, nel respirare del presente, anche la coscienza profonda d’una storicità autorevole.

Keiji Ito e Yasuhisa Kohyama sono nati rispettivamente nel 1935 e nel 1936, Shozo Michikawa e Shingo Takeuchi nel 1953 e 1955, Kazuhito Nagasawa nel 1968. Dunque, i loro corsi d’opera si svolgono paralleli a un periodo ampio di rivolgimenti radicali del linguaggio plastico, che in Giappone ha significato soprattutto l’esperienza di Gutai, la cui forte componente antidisciplinare ha lasciato tracce profonde nel dibattito internazionale tutto.

Yasuhisa Kohyama, Suemono, 2014

Yasuhisa Kohyama, Suemono, 2014

Peraltro una considerazione è d’obbligo, per comprendere a fondo uno dei tratti identitari specifici del milieu artistico giapponese. Le accelerazioni linguistiche e concettuali, anche quando estreme, vi si sono sempre prodotte in seno a un’idea di avanguardia che non concepisse se stessa necessariamente, sempre e comunque, come una dissoluzione, ma che davvero prevedesse un dialogo non di circostanza tra pars construens e pars destruens. Dunque, non assumere un atteggiamento antidisciplinare o adisciplinare, tutto interno a variabili geometrie definitorie dell’artistico, è fatto normale, che non qualifica né squalifica rispetto alla clausola, essa sì inderogabile, della qualità.

Inoltre, le arti della terra non sono state colà sottoposte al processo profondo di svalutazione concettuale che ha segnato, nella cultura europea, le pratiche d’ascendenza altoartigianale rispetto a quelle presunte “pure”. Per stare all’ambito dell’arte della terra, nessun autore giapponese ha mai avvertito e avvertirebbe il bisogno di proclamare, come pure accadde a Lucio Fontana, “io sono uno scultore e non un ceramista”, dal momento che era ed è implicito, e fuori discussione, il fatto che la ceramica sia conosciuta, pensata e accolta come pratica d’arte a pieno titolo.

Detto ciò, ognuno di questi artisti ha identificato nella pratica ceramica il proprio specifico luogo d’esperienza e d’espressione in ordine a un’identità scultorea cui, com’è necessario ed evidente, la scelta di tecnica e materiale è considerata la più appropriata: “come ovunque vi sia vita, si svolge un dialogo tra l’autore e la materia della sua opera”, ha scritto sintomaticamente Antoni Tàpies.

Keiji Ito, Onna, 2014

Keiji Ito, Onna, 2014

Keiji Ito lavora su una sorta di atavismo della forma, sia essa lo schema antropomorfo primario sia quella dell’oggetto così come sin dal neolitico veniva identificato nella sua sostanza formale.

In Kohyama viene assunto esplicitamente e agisce il legame con il luogo natale, Shigaraki, dunque una confidenza con il materiale che si fa esperimento lungo e affinatissimo dell’espressione, a un punto in cui la forma astratta riveli la sua anima biomorfa, il suo essere, comunque, della natura. In entrambi la terra non è contraffatta a superficie ma dispiega la potenza aspra della sua matericità, e soprattutto la sua facoltà di farsi essa stessa colore, nel rapporto scrutinante e complice che l’autore instaura con essa.

Come Kohyama anche Michikawa opera in uno dei Nihon Rokkoyo, i sei centri storici della ceramica, Seto: non per nascita, ma per scelta meditata. E anch’egli ausculta l’argilla sino a instaurare una complicità genetica profonda, in cui la tecnica di tradizione viene continuamente rimessa in questione da un intendimento della forma in cui agiscono le linee di forza della sua interna geometria, spinte a farsi ragione formale dell’opera.

Diverso è il rapporto con la materia/colore di Takeuchi, altro erede eminente della tradizione di Seto, dalla quale evolve ricorrendo a una modularità serrata e fortemente chiaroscurata in dialogo con una di inamena e potente cromia minerale, quasi tentando il punto di rendere l’artificiale dell’opera una sorta di accidente virtuoso del paesaggio naturale.

Nagasawa, infine, ha compiuto un passo ulteriore rispetto all’esclusività dell’uso della terra e alla natura oggettuale dell’opera. La sua è una vera e propria riflessione sull’oggetto, e soprattutto sulla sua ragione di corpo straniato e straniante di cui non conta ciò che mostra, ma ciò che cela, rendendolo intuizione, memoria, suggestione.

Scaturisce, dalla compresenza forte di queste opere diverse, un senso comune e un mood precisatissimo. Fatto di sentimento potente della materia che mai scade nell’asserzione, men che meno nell’esibizione. Fatto di tensione e intensità, di un peso specifico che è estetico prima ancora che fisico. Di silenzio, soprattutto, ch’è dote poetica fondamentale delle opere vere.