Morandini
Morandini. La forma meravigliata, in “La Ceramica”, 27, Milano, dicembre 2015
“Qualcosa, che prima esisteva nel mondo delle idee, diventa una realtà che può essere controllata ed osservata”, dunque “una rappresentazione della realtà di pensieri astratti, invisibili”: quando Max Bill presentava partitamente, era il 1946, la concezione di arte concreta nella quale confluivano diverse fondamentali esperienze e riflessioni del secolo, apriva di fatto un modo radicalmente diverso d’intendere la pratica visiva.
Il primato della logica generativa esatta, delle leggi matematiche che presiedono anche la formatività profonda del naturale presupponeva non solo un primato del pensare/fare e del pensare/vedere su qualsiasi gratificazione sensibilistica, ma anche una conseguenza non meno fondamentale, a quelle date imprevedibile se non nei vagheggiamenti di certe utopie che si erano vissute tra Olanda, Unione Sovietica e Germania, e ancor oggi malamente digerita dalle istituzioni preposte all’omologazione dell’artistico. Tale conseguenza era l’abolizione de facto d’ogni confine convenzionale tra arte pura e arti utilitarie, da un lato, e d’altro canto tra le discipline canoniche: il disegno, la scultura, la pittura, l’architettura. Solo pochi autori, tuttavia, hanno saputo condurre tale orientamento alle sue conseguenze estreme: tra essi spicca Marcello Morandini.
Nato artisticamente nella Milano degli anni ’60 in cui fortissimo è lo scambio disciplinare tra ricerca artistica e design – da Ettore Sottsass jr a Joe Colombo, per citare due esempi eccellenti – Morandini da subito ha ben chiaro meglio d’ogni altro che il pensiero e il processo generatore della forma è uno, in radice identico, che si tratti di opere concepite per la Biennale veneziana del 1968, alla quale partecipa giovanissimo, o la “documenta6” di Kassel, 1977, oppure di progettare una piazza o un edificio, oppure ancora di concepire oggetti per il vivere.
La sua scelta è di rivendicare e difendere con forza, con intransigenza sorridente ma non perciò meno inflessibile, il proprio approccio, a costo di collidere con gli stessi suoi compagni di strada nel compound di quella che si diceva “arte programmata”, dei quali mai ha condiviso l’ossessione teoricistica e l’iperdeterminazione ideologica, coltivando semmai un gusto per l’accelerazione visionaria e il puro guizzo creativo il seno al rigore processuale, sino alla folgorazione meravigliata e all’emozione, così come è stato solo per l’artista a lui per molti versi più vicino, Gianni Colombo.
In seguito, è stata quella di accettare di apparire come figura anomalissima, e perciò culturalmente non amministrabile, quando il mainstream del gusto si è fatto una sorta di deriva anestetizzata dal pensiero debole.
Anomalo è stato ed è, Morandini, anche sotto un altro profilo, meno decisivo ma per lui evidentemente non eludibile: mai il suo fare e il suo dire si sono ammantati dei panni del suo personale proporsi “en artiste”; mai, soprattutto, egli ha accettato di sovraesporre la propria figura di creatore come evidenza mondana, lasciando che a parlare fosse, sempre e comunque, la sua opera.
Che Morandini incontrasse e praticasse le arti della terra era per molti versi scritto nelle cose. Ricorda François Burkhardt che un momento essenziale della pluriennale esperienza tedesca di Morandini è stato, nel 1979, “l’intervento di Eugen Gomringer, capofila della poesia concreta e consigliere artistico dell’industriale Philip Rosenthal, che inserì Morandini nella cerchia degli artisti attivi nella manifattura di porcellane Rosenthal a Selb”.
La serie di opere in porcellana e in ceramica che Morandini ha realizzato negli anni è, in lui, un ambito creativo che appare quasi come un microcosmo in cui, necessariamente, tutto il suo pensiero e tutta la sua personalità creativa si incarnano perfettamente.
Sono opere, vien da dire, “anche utilitarie”, ma certo non meno dell’arte. Per esse vale quanto suggeriva il grande Hans Arp a proposito delle arti applicate: “Un tappeto è fatto per sedercisi sopra, per sdraiarcisi sopra, dormirci e camminarci sopra. Malgrado ciò, un tappeto può essere arte, anche sublime. In questo caso è meglio, secondo me, sedersi su qualcos’altro”.