Talenti e leggende
Talenti e leggende, in Talenti e leggende. Il Palazzo di Brera si racconta, Johan & Levi, Monza 2015
Il documento più eloquente del senso di questa iniziativa è un quadro di Achille Funi, Ritratto con la statua, che nel 1988 fece da copertina al catalogo La scuola di Funi: l’ambiente è quello solenne e ombroso di Brera, il gesso è la quintessenza dell’antico, ma il volto è quello di Gianni Colombo, un allievo che con alcuni compagni di corso, Davide Boriani, Grazia Varisco, Giovanni Anceschi, proprio in quelle aule ha maturato una delle grandi svolte dell’arte nuova.
Funi, che lo stereotipo ci ha consegnato come burbero “laudator temporis acti”, non era nuovo all’incrocio operativo con gli Jungen che intessevano piccole e grandi rivoluzioni tra le mura braidensi. Già nel marzo 1944, ad esempio, chiamato a una mostra personale alla Galleria del Milione, aveva ottenuto di affiancarsi un valente discepolo poco più che ventenne presentando, testimonia una cronaca dell’epoca, “nature morte e paesaggi di Achille Funi e otto grotteschi a tempera di Cesare Peverelli”.
Brera è stata ed è così, si può dire sin dai suoi inizi. Incarnare il senso dell’identità e della grande continuità storica dell’arte, tanto nel magistero disciplinare quanto nell’elaborazione delle idee, ma con lo sguardo rivolto più al presente e a un futuro possibile che al passato, per quanto autorevole e incombente esso sia.
A ben vedere la storia dell’edificio tutto reca tracce indelebili di una continuità evolutiva ininterrotta. Prima convento degli Umiliati (ai quali si deve la chiesa di Santa Maria di Brera, compiuta da Giovanni di Balduccio nel 1347, in seguito inglobata e stravolta dalle ristrutturazioni dei primi dell’‘800), poi dal 1572 collegio dei Gesuiti, istituto di istruzione superiore per il clero e la nobiltà, Brera deve il suo aspetto a due degli architetti più talentosi tra quanti hanno calcato la scena milanese, Francesco Maria Richini nel ‘600, su incarico dei Gesuiti stessi, e nel secolo successivo Giuseppe Piermarini, il quale nel 1776 ottiene il primo insegnamento di architettura all’Accademia neonata e tre anni dopo progetta la facciata su via Brera.
I decenni cruciali della vita del palazzo e dei suoi abitanti sono in effetti quelli finali del XVIII secolo. Ai Gesuiti si deve l’iniziativa dell’arrivo a Milano da Marsiglia di padre Luigi La Grange, che nel 1762 fonda la specola di Brera, presto affiancato da un altro leggendario membro dell’ordine, padre Ruggero Boscovich: l’osservatorio astronomico è, e resterà, uno dei centri d’avanguardia assoluti nel suo campo.
L’acquisto da parte della Congregazione di Stato per la Lombardia della biblioteca privata del conte Carlo Pertusati è l’avvio, negli stessi anni, della vicenda della Biblioteca Braidense, che l’imperatrice Maria Teresa d’Austria decide nel 1770 di trasformare in “una biblioteca aperta ad uso comune di chi desidera maggiormente coltivare il proprio ingegno, e acquistare nuove cognizioni”: aprirà al pubblico nel 1786.
Del 1774 è la nascita dell’Orto Botanico, gioiello naturalistico sconosciuto ai più e oggi giustamente implicato in questo sguardo tra presente e passato, sempre per volere di Maria Teresa e sempre in funzione del progresso, della trasmissione e della condivisione della conoscenza. Due anni dopo, 1776, è la volta dell’Accademia di Belle Arti, al fine di “sottrarre l’insegnamento delle belle arti ad artigiani e artisti privati, per sottoporlo alla pubblica sorveglianza e al pubblico giudizio”, ovvero per fare finalmente dell’arte una disciplina anche intellettuale, e non solo un ambito di mero mestiere.
I fasti napoleonici, ricorda il grande nudo canoviano che campeggia al centro del cortile principale, sono favorevoli a Brera. Il palazzo diventa sede anche dell’Istituto Reale di Scienze, Lettere ed Arti, ora Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere.
Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia di Belle Arti negli anni cruciali 1801-1807, non solo è pittore e intellettuale finissimo (e collezionista prezioso, visto che possiede un gruppo di straordinari fogli leonardeschi, tra i quali spicca l’Uomo vitruviano), ma soprattutto, si direbbe con mediocri parole d’oggi, uomo del fare.
Con lui la didattica dell’Accademia si dota di un regolamento, 1803, che mira a farne un luogo ove l’arte sia sapere prima ancora che operare, e sia intesa inoltre come motore etico che accompagni e stimoli il rinnovamento della vita civile: per certi versi memorabile è il suo programmatico Discorso sulla utilità politica delle Arti del Disegno, 1805.
Nascono su iniziativa di Bossi la Biblioteca dell’Accademia, la collezione di materiali antichi poi confluita nelle raccolte del Civico Museo Archeologico, quella di gessi, ma soprattutto la Pinacoteca, che deve al suo nascere come repertorio di modelli, e per di più in un tempo in cui le requisizioni di opere erano pratica all’ordine del giorno, quel carattere di rappresentazione il più possibile ampia del fior fiore di tutte le scuole nazionali. Sino al 1882 Accademia e Pinacoteca vivranno in simbiosi perfetta, poi i loro destini istituzionali si separeranno, proprio nel tempo in cui il fremere delle avanguardie determina, nelle scuole dell’Accademia, genealogie sempre più diversificate e serrate.
Gli incroci biografici dicono dell’accelerazione linguistica (e di cultura tutta, oltre che del rinnovamento profondo dello statuto professionale dell’artista) che si verifica nel volgere di pochi decenni. Francesco Hayez lascia nel 1861 il grande studio di Brera, e già ecco Giuseppe Bertini, e dopo di lui l’allievo Cesare Tallone, compagno di studi di Gaetano Previati e di Giuseppe Pellizza da Volpedo, alla cui scuola cresce la generazione futurista: Carrà, Funi, Carpi, che saranno a loro volta genetici maestri braidensi, e ancora Bonzagni e Sant’Elia, Dudreville e Chiattone, tra gli altri.
Le mostre triennali di Brera, che dal 1891 succedono a quelle annuali avviate nel 1805 da Bossi, sono il vero e proprio Salon nazionale, con un’apertura tale da non innescare polemiche da refusés. L’Accademia, nel tempo delle avanguardie montanti, non è l’antagonista culturale da abbattere, perché lascia maturare entro se stessa le opzioni ulteriori, i superamenti anche bruschi. Non c’è una Milano dell’arte nuova contrapposta a Brera, ché l’Accademia, forte di un senso di appartenenza non altrove riscontrabile, si fa identità comune che la radicale diversità di posizioni non è in grado di elidere.
Che un genio dell’avanguardia come Lucio Fontana, allievo di Adolfo Wildt come Fausto Melotti, abbia manifestato più volte il proprio grande rispetto per maestri diversissimi come Lodovico Pogliaghi e Francesco Messina, dice proprio di questa appartenenza. Che si sia data una congiuntura per cui Alik Cavaliere ha studiato con Messina, poi con Marino Marini, per succedergli nell’insegnamento della scultura e farsi a propria volta riferimento della nuova generazione milanese tutta, dice che “essere Brera” è far crescere il nuovo, non costringerlo entro i binari del saputo.
Il frutto attuale di tutto ciò si legge in questa Accademia aperta, figlia d’un cosmopolitismo ormai totale e di vocazioni artistiche che in molti casi poco parrebbero aver a che fare con la tradizione anche recente.
Vorrei concludere con un piccolo aneddoto che credo significativo. Nel 1998 la pittrice ticinese Anita Spinelli, compiendo novant’anni, chiese ai nipoti il regalo di essere accompagnata a rivedere Brera, dove aveva studiato tra il 1925 e il 1933 e dove da allora, così aveva voluto la biografia, non era più tornata. Insieme a Carlo Bertelli la accompagnavo – era per me una vecchia amica – per aule e corridoi e le chiesi a un tratto: “Anita, perché oggi hai voluto venire proprio qui?”. Mi rispose con indulgenza, come a una domanda ovvia: “Ma perché sono di Brera, no?”.