Mainolfi
Il percorso di Mainolfi, in Luigi Mainolfi, Essegi, Ravenna 1992
È con la seconda metà degli anni Settanta, in coincidenza con opere di già matura costituzione come Brano, 1977, Finestra, 1978, La scultura, 1978, che il lavoro di Luigi Mainolfi inizia a trasferire il proprio assetto problematico da un’accezione latamente postconcettuale, benché venata di erraticità e ironia assai atipiche, a quegli anni, a un più stringente assedio della nozione fondativa di scultura: una scultura, beninteso, che non s’attesti all’interno della possente machina retorica, tecnica e linguistica, disciplinare, di portato tradizionale, ma con essa interloquisca con amore provocatorio, sottoponendola a una compressione e a una disamina che puntino al suo stesso cuore, riedificandone, dopo un paio di decenni di dissoluzioni di codice e di circolari facoltatività operative, un nuovo statuto di possibilità e di necessità, identificabile e proprio.
In gioco, per Mainolfi, non è dunque un’assunzione strumentale dei termini disciplinari che faccia da materiale per un’operazione deviante, di postdadaistica o ideologica “art about art”; ma neppure, ciò che segna la differenza radicale da pressoché tutti gli esponenti della sua generazione, il discorso virgolettato, la ripresa testuale di schemi, modi, tic, valori, nel montaggio accelerato e lieve, che pare tutto di cuore ed è invece tutto di testa, e quasi sempre a freddo, e secondo ricettari che paiono gastronomici, che emerge come conclamata novità del trapasso di decennio.
Altro ha in vista, nella sua scommessa ostinata e avvertitamente “fuori strada”. Per lui, che pure ha saggiato con lucidità e proprietà i formulari in corso dagli anni Sessanta – il montaggio di immagini al limite della deidentificazione, l’installazione, l’evento spettacolarizzante, le contaminazioni mediali, eccetera; che ha compreso lo spostamento forse definitivo della soglia d’identità tra opera effettiva e progetto intellettuale, tra segni forti e sottosensi, tra concretezza raziocinante del fare e discorso teorico sul fare (e sul far vedere), l’importante non è assettarsi un ubi consistam relativo.
Tenta, con orgoglio antico, lo spessore, il peso specifico, dell’opera: del corpo plastico fondato e cresciuto a forma per via d’una ragione necessaria, complessa, autonoma soprattutto.
Tenta una scultura irrelata, capace di essere nello spazio, con assertività autorevole, con evidenza piena e composta, e insieme di raccontare, di dire non solo dirsi, di provocare schiusure significative e affettive nel suo agire complesso in seno al luogo, alla sua luce, alla sua condizione di tempo.
Il corpo artistico come evento, come articolata e non introversa motivazione di spazio, agente su livelli non univoci d’aspettativa, approccio, modalità effettiva, insomma; e insieme, però, non orfano di quella plenitudine, di quel turgore significativo che Mainolfi avverte non possibile nel mero teatro delle posizioni intellettuali, ma attuabile ancora in un fare che sia davvero esperienza totale, “pensare con le mani”, nell’ansimare di contaminazioni e purificazioni, d’ironie e sospensioni poetiche, di termini prosastici e di trascorrimenti avventurosi, deroghe: e fantasie.
Per questo Mainolfi, nel momento cruciale del passaggio, dell’opzione ormai definitiva, che prende forma nel vero e proprio manifesto del suo operare, La campana, 1979, muove da uno schema retorico all’apparenza “facile”, e sottilmente rétro.
L’apparato tecnico che mette in campo è assolutamente tradizionale, un plasticare retto tra abilità e corsività, apertamente lento, elaborante, organico tutto, senza ideologie di costruttore ingegnoso: che pretende un esito oggettivo, il valore di cosa, nella sfera ordinaria d’esperienza, e insieme di cosa estranea, nel dominio dell’artistico.
Ugualmente, nel pretesto iconografico assunto come iniziale, e nell’istoriazione fitta che invade l’esterno come l’interno della campana, egli rimonta a un’idea primariamente popolaresca, ingenua, diretta, dell’esprimere, del narrare, tra favolistica e saporosamente didascalica. Non è beninteso, come d’altronde nel caso della scelta tecnica, un’adesione profonda, fideistica, un credo esplicitato. Pur senza cinismi linguistici e senza birignao analitici, Mainolfi sa che uno stile è ipotizzabile ormai solo come discorso indiretto, come esperienza d’una distanza incolmabile: ma insieme, che alla perdita irrevocabile del senso si deve reagire dando corpo a una forma forte e autorevole, in cui almeno avvenga l’interrogazione, la possibilità, una condizione altra dell’espressivo.
A fianco dell’opzione d’abbrivio, infatti, egli immette, contaminando saporosamente, anche elementi tipicamente avanguardistici, con pari disincantata strumentalità. In primo luogo, egli ricorre al modo, ormai corrente nel contemporaneo, dello straniamento. La sagoma enfatica e incombente della campana, resa vieppiù sonante (e la sonorità è elemento non accessorio nel suo rapporto fisiologicamente complesso e paritetico con i materiali, terra bronzo legno e quant’altro) e evidente dal fulgore della patina rosa, un po’ pompeiana un po’ popolaresca; il praticabile teatrale che ne rende accessibile il ventre ombroso e confidente, rifugio fantasticante, come di grotta-utero; la dimensione stessa rispetto alla nozione di interno della stanza che la ospita: tutto concorre a farla leggere come cosa in sé, e insieme come fenomeno di spaziosità dirompente, erratica.
La configurazione oggettiva, l’evento, la spazialità calda e simpatica, pur essendone lucidamente consapevoli, interrompono tuttavia il filo genetico degli accadimenti neodada, minimal, eccetera. Recuperano, infatti, uno statuto di normalità, di deroga dolce al meccanismo delle aspettative, che sposta il piano radiante del senso dalla polarità energetica teatro-intelletto della tradizione neoavanguardistica ad una in cui retorica bassa, artigianalità affermata-tradita, narratività, formatività turgidamente elementare, vogliono ritrovare il bandolo di una capacità persuasiva senza eteronomie, primaria, ignara di provocazioni teoricistiche e di esangui metalinguismi. Ipotizzano, ove ancora fosse possibile, che nel luogo proprio dell’arte, avvertito e affrontato testualmente, l’evento plastico e lo spettatore nuovamente convivano, in una solidarietà complessa ma probabile, e si scambino il dono reciproco dell’impulso intellettuale, affettivo, fantastico. Pochi sono i riferimenti possibili, per questa apertura problematica di Mainolfi. Penso al Cragg più lucido e poetico, a certo Gormley, ai tedeschi meno banali. È comunque un inizio, per Mainolfi; una sorta di fragrante e corposa dichiarazione d’intenti, ambiziosa senza arroganze, consapevole della difficoltà estrema presupposta da tale discorso privo di alibi strategici, non protetto dalla cappa confidente di una leggibilità immediata nelle geografie statuite del dibattito artistico.
Del resto “sto muovendo i primi passi – ha detto ancora di recente – partendo dalla scultura, la forma della terra”.
Primario, il suo lavoro non è per enunciato formale, per decisione di stile, ma per vocazione profonda. Mainolfi è cosciente che ogni moderna idea di leggerezza, di trasparenza, di levità di senso – che sono, anche per lui, valori inderogabili – non può attestarsi entro la soglia dei bamboleggiamenti rigoristicamente riduttivi, o in quella, alla lunga non meno sterile, d’un nuovamente retorizzato teatro di figure. La radice mediterranea che porta in sé fa risuonare un rapporto oscuro, profondo, fertile, anche se non filosoficamente distillato, con i temi grandi, natura e naturalezza in testa. Con le materie, con le forme, ha un approccio chiaro, erotico, solare, che ne assapora la fisiologia saporosa, e insieme ne schiude gli spiragli mitici, le lontane pulsazioni magiche. La terra, il sole, l’albero, l’acqua, il fuoco, non sono per lui icone libresche, pensieri pensati: sono lo stesso avvertimento originario del mondo, l’esperienza animistica delle cose che è, del pensiero, il nucleo sorgivo primo, prealfabetico, fondativamente organico, paganamente in rapporto con il divino.
Ecco, se l’arte può essere, è perché nelle sue demiurgie tale senso mitopoietico impastato d’un’anima, può ancora ridarsi, parlare, smuovere ed eccitare gli strati oscuri della coscienza, ricorrendo al meccanismo nudo del generarsi all’apparenza delle forme, delle immagini. Con meraviglia, stupefazione, forza, grazia. Questo la scultura può essere, ancora, nonostante tutto, “la forma della terra”, con tutto ciò che di consapevole e impreventivo ciò può portare con sé, con lo spessore del mondo con cui non ha dismesso di intridersi.
Nascono Spaccacampana, 1979, Batacchio, 1979, in cui il pretesto formale della campana si concentra in simbolo, emblema spaziale e iconografico a un tempo preciso, inequivocabile, e dischiuso su echeggiamenti che intessono un’epopea del profondo. È una mitologia terragna, quella che Mainolfi in parte ripercorre in parte fa essere, nuova. L’Orco, l’Elefantessa, lo Stagno: la Valle Caudina. Leggende di generazione, di differenza, dalla poesia ruvida e diretta, sessualmente umorale, in cui le materie pulsano e respirano, si fanno nervi e sangue del mondo. Lontane dalle figure lunari d’un altro montanaro solitario, gli Angeli ribelli e le Amalassunte: impure e domestiche, invece, incarnate in un grottesco che non conosce l’orrido, che pensa l’ombra senza vertigine; protagoniste delle favole ingegnate da chi sa che, come recita un detto delle favole di Mainolfi, “una notte si passa anche sopra una petra”. Mainolfi non ne fa, ovviamente, nulla più che un pretesto figurale, ben guardandosi dal caricarle di responsabilità significative primarie o di apparato letterario. Questi miti di nascita sono per lui quelli attraverso cui saggiare la nascita stessa del processo in cui s’incarna la sua scommessa di scultura, con i suoi cromosomi e le sue crescenze, le sue voglie di corpo e di spazio, le sue evidenze e le metamorfosi, lo spettacolo e il mistero.
Il momento di prima, sostanziosa maturità, è offerto dal percorso della mostra da Tucci Russo, Torino 1981. Orco di Pompei, 1980, Orco Valle Caudina, 1980, Nascita di Orco ed Elefantessa, 1980, Impluvium, 1981: sono stazioni d’un racconto che non conosce sviluppo, che s’attorce e addensa in momenti forti di senso, in corrispondenza con i tòpoi dell’architettura del luogo in cui si svolge. La terra, trattata con basso profilo tecnico, scevra di compiacimenti fabrili, si coagula in forme che saggiano non solo le diverse possibilità di avvenimento rispetto al luogo – il rilievo, l’estensione pavimentale, la disseminazione plastica, e appunto l’impluvium – ma anche, e con maggior acribia, quelle in cui il figurare così enfaticamente retorizzato, così immediatamente organico, vede decadere la propria riconoscibilità, l’identità primaria, in favore d’un assai più fondativo ragionamento sul formarsi, sul divenire persona del corpo plastico.
È difficile, per l’artista, mantenere con la materia, e con i processi che avvengono, un rapporto così estroverso nelle risultanze quanto umile, fresco, stupefatto, letteralmente immediato, e dunque altamente interiorizzato e avvertito, perché ciò possa darsi con qualità, negli atti. Il rosso ruvido di terra e quello laccato della colorazione, le anatomie abbreviate e irregolari delle figure, le chiome schiumose e abbandonate all’alea della digitazione degli alberi, dicono d’un’attenzione estenuante, orgogliosissima, a negare la facilità del talento, ad aggirare il meretricio del ben fatto o del mal fatto ad arte, in favore d’una autenticità senza deroghe e abbigliamenti, amabile inamabile non importa: che sia essa stessa, nella sua allarmante nudità, il respiro di cui la scultura non può fare a meno, oggi più che mai.
Se è consentito un ricordo personale, più affettuoso ancora della memoria straordinaria dei giorni de La sovrana inattualità, Milano 1982, di cui Mainolfi era primattore, esso riguarda un’osservazione fatta da Nanni Valentini, principe della terra che si fa corpo e luogo di scultura, a proposito di Nascita di Orco ed Elefantessa. Diceva, Nanni, che la scommessa stupefacente di Mainolfi era di trattare la terra come terra, tenendo in scacco l’artificio strumentale: e il plasticare, il figurare, ne nascevano con forza sorgiva, in realtà primigenia, come le statuine fittili dei Siculi, come le Madri capuane.
Plastiche architettoniche di brusca potenza, come schegge ossose di racconto, con filigrana d’ex-voto (pinakes, verrebbe da citare, se il lavoro di Mainolfi consentisse civetterie intellettualistiche, invece di un à rebours diretto, radicale, nelle scaturigini stesse della cultura plastica), sono d’altro canto anche le prove considerate di minor impegno, segnatamente le serie fitte di formelle in cui un improbabile orizzonte alto serra la misura della terra, dell’albero, d’una nascita mitica ancora, d’un barlume di cielo affocato.
Di nuovo, la loro costituzione di codice, lo schema retorico cui fanno riferimento rispetto alla tradizione scultorea, ha valore di neutrale griglia formale all’interno della quale lasciar fluire la fantasmagoria figurale, e insieme di ambito interrogativo sul fondamento stesso della scultura, delle sue ragioni storiche, delle sue modalità topiche. Mainolfi cerca, nella formella, nell’irradiazione parietale, nella crescenza pavimentale, nelle muraglie in rilievo, nella circolarità tridimensionale, ancora la possibilità del totem, e dell’amuleto, e la confidenza nel senso dell’istoriare che era stata dell’artefice romano, e romanico.
Prende, non casualmente, a lavorare il tufo, la pietra tenera e senza nobiltà d’un’altra tradizione di facitori di divinità, di raccontatori di storie. Vi agisce alternando in schema la visione frontale e la costituzione tridimensionale, oggettiva, in una scommessa che è ancora, sempre più serratamente, sui generi, le modalità, la ragione delle convenzioni. Più esplicitamente, è quanto fa anche in due lavori ugualmente fondamentali del 1982, Le basi del cielo e Il trionfo (Elefantessa), quest’ultimo seguito l’anno successivo da Il trionfo (L’Orco). Nel primo è di nuovo la terracotta, accentata dalle usuali smaltature rosse, a misurare il doppio valore sul quale Mainolfi costruisce il suo processo plastico. La brusca inversione proporzionale e gerarchica, che fa dei paesaggi il soggetto accessorio portato dalla dismisura del basamento, non pretende specifico carattere di provocazione intellettuale: è, semmai, a sua volta ripresa di uno snodo storico della ricerca plastica, che rimonta a Brancusi, alle stagioni della “morte della statua”: e ancora, l’artista ne saggia possibilità ulteriori, costruttive, propositive, in seno al suo proprio percorso.
Il narrare, l’esplicitare nel suo fastoso passo immaginativo, è come se si ritraesse, grumo o scheggia che non necessita di enfasi per assumere evidenza ed espressione. Il crescere della base la fa divenire colonna, stele, nuovamente ipotesi di totem: ne fa, soprattutto, un elemento che travalica la propria ovvia e opaca funzionalità, la propria modalità specifica – che s’affaccia alla catena di indagini svolte intorno alle situazioni e ai comportamenti topici del corpo plastico svolta da Mainolfi negli
anni – e diviene esso stesso soggetto dell’avvenimento scultoreo, organica architettura, forma dotata di carattere e sostanza in sé.
In Il trionfo (Elefantessa) il bronzo, nella sua storica funzione di autorevole materiale statuario, torna in campo per una sorta di fantasia dolcemente allucinata che rimemora la Chimera aretina, le brusche e potenti sculture etrusche e romane, con quel senso di massa, di pondus conchiuso e fissato entro il tegumento della superficie, che è insieme momento preciso di riflessione sulla tradizione scultorea e verifica dell’attuabilità di una plastica serrata, dalla sintassi ostica e raffermata, anatomicamente identificata e probabile anche nell’eccedenza lunga e ironica dell’invenzione, della contaminazione formale.
È il limite della statua, che Mainolfi tenta con quest’opera. E nuovamente, non può che riaffrontare la questione della situazione spaziale, di un comportamento che non sia segnato da alterità, da un registro oggettivo distonico. Ecco, allora, che è lo stesso corpo della scultura a emettere i propri appoggi statici, come raggi invadenti e d’instabile orientamento che afferrano la gravità, e la riportano in seno all’ evento plastico come carattere proprio, non additivo.
Ciò appare in Il trionfo (Orco), 1983, L’isola, 1983, e soprattutto nel compiuto Arcipelago, 1985, in cui Mainolfi intuisce anche la possibilità d’estendere la struttura plastica a metrica grafica, sottilmente determinata, dello spazio.
Sono, le isole di questo Arcipelago, con quella cavità acquea abitata da una pietra, montaggi capaci di forte evocazione. Se Trovai Rotondi in uno stagno d’acqua, 1982, sintetico brano poetico in cui bronzo, acqua e tufo, agiscono in pari responsabilità espressiva, ancora si chiede una possibilità di racconto, di un’antropomorfizzazione fantasticante ma probabile del corpo plastico, è con il passaggio cruciale di Arcipelago che Mainolfi assume una padronanza più profonda, rilassata, articolata dell’invenzione scultorea. Il narrare, ora, prende a essere davvero tutto interno al farsi forma dell’immagine, con meccanismi di referenzialità, di citazione, di echeggiamento, ormai congeniti al processo di crescita. Sempre elementare, diretto, svolto in modalità estranee al virtuosismo, alla teatralizzazione artificiosa, è il ruvido corso d’opera di Mainolfi. Non è più, questa, una scelta, una modalità strumentale d’innesco e di riflessione. Si è fatta una condizione naturale del fare, e del far essere, con forza e vocazioni definitivamente precisate.