Carmi
Eugenio Carmi. Il teorema di Pitagora, catalogo, Casa dei Carraresi, Treviso, 7 gennaio 2012
Per alcuni fervidi anni, il lavoro di Eugenio Carmi si è svolto all’insegna della massima contaminazione con la materia, con la misura storica, con l’esistenza. Nato pittore, egli ha esplorato con curiosità sperimentale e ricca proliferazione inventiva i possibili dell’invenzione e dell’espressione.
Quello che un tempo Umberto Eco, testimone e amico d’una vita, ha indicato come “allenamento a una natura industriale”, è stato il viaggio d’un coboldo geniale entro i possibili nuovi dell’esprimere, tecnici quanto concettuali, ammantato d’un avanguardismo fatto vita vivente anziché frigido atteggiamento intellettuale.
Era il decennio Sessanta e Carmi, dopo una formazione non banale ma canonica tra lezione casoratiana e un informale praticato secondo gli umori d’un polimaterismo in cui convivevano opulenza fisica e scrutinio intellettuale, si è aperto allo spettro radiante di pratiche di contaminazione mondana dell’artistico. Sembravano, le sue opere di quel tempo, davvero incarnare “le forme del movimento dinamico del nuovo mondo di ferro” di cui scriveva Malevic. Ragionavano non di alterità algida dell’arte ma di presenza assertiva, modificante: materie e colori assunti dal mondo, Gestalt, misura dell’esprimere ma insieme del comunicare, rapporto di scambio con la scienza e la tecnica, intuizione e invenzione che continuamente irrompono nel metodo costringendolo a ripensarsi, a uscire dalle proprie catafratte certezze.
Questo l’artista saggiava, sino a giungere a una sorta di consapevolezza definitiva. Essa riguardava la natura felicemente, fastosamente ambigua dell’opera. Da un lato essa è un oggetto storico, variamente convenzionale a cominciare dalla sua forma canonica di rettangolo o di quadrato o di cerchio (“ogni sorte di pittura, fatta in tela, o legno, o d’altra materia, che sia quadra o d’altra figura; e così far molti quadri, intendono far molte pitture, in tele, tavole, o altre materie quadre, o d’altra figura”, scriveva Filippo Baldinucci nel Vocabolario toscano dell’arte del disegno, 1681), dall’ineludibile e preziosa qualità fisica. D’altro canto essa è, per eccellenza, immagine, il cui tema è l’immagine stessa, in una dimensione totalmente teorica, essenzialmente comunque astratta.
La serie Segnale immaginario elettrico era testimone precisa, in tal senso, all’avvio del decennio Settanta. Una superficie tanto fisiologicamente presente quanto, per altri versi, demateriata; un colore sensuosamente flagrante fatto di sostanza cromatica stessa: e la luce, una luce intesa non più come lume ma come frequenza, condizione fisica padroneggiata del vedere e del far vedere.
È stato, questo, il passaggio che ha condotto Carmi alla definitiva maturità, espressiva e operativa. Ciò che il plexiglass e il neon instauravano era la medesima concezione che la pittura ad acrilico, la cui presenza nitida e inemotiva dà conto di una fisiologia della matière couleur senza pagar scotto ai suoi accidenti, ai suoi umori, e la tela, con la sua sostanza di plesso fisico tattilmente sensibile – che la scelta della juta accentuerà in modo esplicito – e con quel suo dialogare fitto con la luce incidente, altrimenti potevano decidere.
Per certi versi, questo passaggio di Carmi ha rappresentato, nel panorama delle ricerche di quel tempo, una delle evoluzioni più concettualmente lucide ed espressivamente fruttuose della definizione primaria di concretismo così come, nell’immediato dopoguerra, si andava ridefinendo.
Era stato Max Bill, frequentazione diretta, precoce e intensa, sin dai tempi dell’avventura genovese della Galleria del Deposito a Boccadasse che Carmi aveva fondato nel 1963, a scrivere nel 1946 che nell’arte concreta “qualcosa, che prima esisteva nel mondo delle idee, diventa una realtà che può essere controllata ed osservata. La pittura concreta è quindi una rappresentazione della realtà di pensieri astratti, invisibili”: dunque, in senso appropriatissimo, esperienza specifica dell’immagine come oggetto di theoría.
La scelta geometrica di Carmi ha in questa prospettiva una doppia valenza. Per un verso recupera e distilla le lezioni pittoriche prime in cui egli s’è formato, quel senso fabrile del costruire, del ridurre alla compaginazione essenziale, quella “tendenza geometrica latente” (così, ancora, Eco), per cui il fare pittura è, appunto, un fare intellettualmente motivato e continuamente interrogato, processo di selezione che elide i possibili in cerca dei necessari, che tenta i perché della forma anziché costeggiarne i come.
Per altro verso assume la geometria come territorio formale che, se autenticamente compreso, è in grado di tutto pronunciare, di tutto esprimere. Ovvero, di instaurare una realtà visuale non contrapposta e straniata rispetto alle misure dell’esistere dell’artista, del suo sapersi partecipe e testimone del tempo, della storia, ma da essa piuttosto trascendente, concentrata sulle ragioni prime.
I rapporti cromatici, quello scalarsi di timbri e toni capaci d’armonia e insieme dissonanza, quel loro agire intorno a una dominante oppure confliggere con bianchi neri grigi, quel trascorrimento anche simbolico dei tre primari, quel contaminarsi drammatico con gli inserti materici portatori di sensuosità stranianti, sono non compitazioni metodologicamente ordinate e preventivate, ma termini del fluire premente delle emozioni e delle sensazioni rifiltrate dall’animo dell’artista. Sono intuizioni talora oscure, tensioni e scarti affettivi, sentimenti anche: sono le parole visive del poetico, definitivamente sottratte ai doveri d’un discorso di retto e regolare ordinamento.
E le forme sono caratteri e comportamenti, che vivono situazioni in cui ciascuna delle shapes geometriche assume un ruolo, dando vita a una serie di comportamenti e di avvenimenti spaziali. Quanto sussista in Carmi, in formulazione ulteriore, dello spirito sapienziale che trapassa da Kandinskij al Bauhaus meno ideologico, è evidente. Quanto sappiano un Triangolo in fuga, o dei Quadrati innamorati, o un Cerchio in estasi, o I dubbi del cerchio, farsi interpreti senza mediazioni dello stream emotivo e intellettuale più intimo dell’artista, non meno schiarito.
Negli anni, l’incedere di Carmi si fa sempre più meditativo, meno attratto dall’asserzione visiva che al coagulo di vicende poetiche complesse.
Questo dicono il disagio sottile che s’insinua nella clarté dei toni coloristici, l’assettarsi più largo e sdefinito dei costrutti. Soprattutto, l’intensificarsi di stesure che si fanno, licinianamente, dramma sottile del colore, di cui prende a contare la temporalità interna del fare/pensare, come di una
visione meditata palmo a palmo, in cui entrano in gioco memoria, speranza, frequenze di sogno e d’infinito.
Infinito appunto, e Rivelazione, e In attesa dell’ignoto, e Ansia e desiderio, sono le titolazioni che prendono ad apparire nel corso d’opere di Carmi. Perché Anche la geometria sogna, e ora è questione di Il miraggio, la bellezza e la realtà.
Non più ricercari, ormai, le pitture di Carmi si fanno definitivamente raccoglimento sulle realtà prime, e interrogazione ultima. Ed ecco riavvampare gli antichi umori sapienziali dell’artista, quel suo misurarsi con la geometria come teatro del pensiero anziché della forma, con quella sua facoltà solo parzialmente sondabile di decidere il reale.
Ecco che le variazioni intorno alla dinamica formale, alla questione della stabilità e fluenza della forma, si vestono di ripensamenti eraclitei. Ecco infine l’artista affrontare Pitagora e la sezione aurea, ovvero i fondamenti stessi della ragione formale, ciò per cui il cosmo è cosmo.
Ha alle spalle ormai, Carmi, ma pienamente e finemente metabolizzate, le lezioni che il secolo delle avanguardie ci ha lasciato in eredità, orfismi e neopitagorismi, la geometria come sapienza e la forma come metafisica possibile.
Nel suo spazio, che è quello del sapersi esistere facendo, quello fisico in cui il sogno si pronuncia e la rivelazione è possibile, l’artista prosciuga l’immagine sino alla sua essenza struttiva stessa, domandando con dolce ossessione a quella trasparenza di farsi ragione d’un rapporto con la realtà, e con l’esistenza, giunto ormai a una sorta di ultimativa resa dei conti intellettuale.
Il teorema di Pitagora e le sue dinamiche perfette, la bellezza stupefatta della spirale che si genera dalla section d’or, un colore che sempre più si fa consapevole della trascendenza diversa dell’oro stesso: e lo scambio ma anche lo scarto tra mondo dei sensi e mondo del pensiero, tra possesso razionale e dismisura emotiva nei territori dell’ignoto.
Ora Carmi, senza indugi ulteriori, si cala nel segreto dell’ “incredibile armonia del nostro universo”, come egli stesso scrive. Incredibile ma, forse, dall’arte pronunciabile.