Palmieri
Testimonianza per Claudio Palmieri, in Claudio Palmieri. Naturalmente. Opere dal 1985 al 2015, Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese, Roma, 8 febbraio – 12 aprile (Campisano, Roma) 2015
Trent’anni. Dal debutto nel 1985, “appadrinato” – amo citare il termine démodé caro a Fontana – da Fabio Sargentini, Claudio Palmieri ha compiuto tre decenni di percorso intenso, inattuale la sua parte, e per altro verso calato in un senso della modernità che egli vuole interrogazione ben più che affermazione.
La generazione alla quale Palmieri appartiene ha potuto vivere una condizione eccezionale. È cresciuta a ridosso del grande postiminimalismo e di aperture mediali radianti, ma allo stesso tempo ha potuto non preoccuparsi affatto di far mostra di rigorismo e di militanze intellettuali obbligatorie. Ha ereditato i territori dello sculturale e del pittorico senza l’ipoteca storica dell’identità disciplinare, ma anche senza quella del far arte per dichiarare che arte si fa. Dunque, potendo tornare a distillare ciò che, per usare parole antiche, “ditta dentro”, ricorrendo a ogni materia, modo, forma soccorra alla bisogna.
Palmieri ha approfittato di tale congiuntura per mettere a punto una logica del processo espressivo pienamente individuata, capace di instaurare nessi problematici più con l’identità lunga della pratica artistica che con i tempi cronistici delle sue epifanie provvisorie.
Ha scelto, in primo luogo, la centralità del fare, il tempo allentato e consapevole dell’artifex che assapora in pienezza la fase di formazione. E ha instaurato con le materie un rapporto di complicità sensuosa e a un tempo di assaporamento intellettuale.
Ha dato corso libero alla propria imagerie proliferante che non s’arresta davanti ad alcun less is more preventivo, ma conosce il turgore della germinazione sino al sovratono, a un umore intimamente barocco, a un’asserzione visiva e spaziale che s’impone, pur in chiave antiretorica e antispettacolare.
L’essenzialità asciutta e opaca del metallo, l’organicità prorompente della ceramica, gli spessori aspri e carnosi della pittura, tutto dice non d’alternative tecniche o linguistiche, nelle opere di Palmieri, bensì di un porre fervidamente in collisione condizioni e aspettative visive della forma, soprattutto rispetto a un grado di figurabilità ch’egli ritiene inderogabile.
Può un processo pienamente autonomo di formazione, nascente da un fare irrelato, approdare a una sorta di evocazione primaria del naturale? Questa la scommessa espressiva di Palmieri.
La risposta è affermativa, a patto che il naturale si intenda come aroma, come filigrana in cui non in gioco è la somiglianza ma la congeneità, ovvero l’affine corrispondere a leggi formative tutte interne, necessarie anche quando non esplicabili. In un caso e nell’altro, la collisione primaria è concettualmente quella tra il codice canonico dell’artificiale e quello del naturale, che Palmieri contamina approdando a una sorta di “regno intermedio” che dice pienamente di pittura e di scultura ma, giusto per evocare Klee, “con qualche ricordo”.
Ora Palmieri è giunto alla stagione della maturità piena, quella in cui i valori fondanti il suo atteggiamento artistico si sono affinatissimi, e hanno acquisito una souplesse, una baldanza anche, definitiva.
Questo dicono le opere ultime, in cui egli tocca le corde d’una bellezza possibile ma straniata: come un mood, un puro bagliore emotivo, dalle plurime suggestioni autres.