Zorio
Gilberto Zorio, in “G7 Studio”, VI, 3-4, Bologna, giugno 1981
“Energia… è la possibilità di rendere operative le funzioni conscie ed inconscie del linguaggio”. Questo è, in modo estensivo, l’assunto di base a partire dal quale Gilberto Zorio ha svolto, dalla metà degli anni Sessanta, il suo lavoro nell’arte.

Zorio, Senza titolo, 1968
In effetti la sua attività, più che attraverso le decisive consonanze che ne hanno determinato per anni la fisionomia pubblica, si è caratterizzata per una continua tensione interna a ordire verifiche dei livelli linguistici dell’immagine, muovendosi in maniera non analitica e sistematica entro gli spessori sensoriali della pratica artistica: quindi, operando sempre sul punto di equilibrio e di massima carica espressiva tra due momenti fra i più vivi del dibattito dell’intero dopoguerra: la pura opzione mentale (e vitale) da un lato, e dall’altro la complicità attiva con i materiali. Ciò appare evidente fin dai suoi primi lavori, che innescavano tale processo di eccitazione significativa lavorando in maniera integrata sul duplice livello dello scarto funzionale della forma e del materiale, sullo schema di immagini-base estremamente normali e quindi ad alto grado di convenzionalità. La Sedia, del 1966, realizzata in tubi Dalmine, cemento armato e poliuretano colorato; il Letto, dello stesso anno, in tubi Dalmine, tondini di gomma e piombo; così come la Tenda, del 1967, in tubi Dalmine, tela impermeabile e acqua salata, procedono nel senso dello stravolgimento della grammatica generativa della forma e dell’introduzione di strati multipli di ambiguità. La “presenza” di queste opere è intensa, così come il loro grado di introversione, che si formula in costruzioni di opaca potenza e compiutezza.
In seguito Zorio passa a un’intensificazione problematica irradiata in diverse (ma intimamente congrue) direzioni, che portano tutte il segno di un’esplicitazione più diretta del picco energetico, di una visualizzazione più marcatamente caratterizzata dal processo. Il rapporto con i materiali assume la fisionomia dello scorrimento mitico, del lavoro non tanto sulla qualità fisica quanto sulla disgregazione dei loro connotati storico-culturali ed estetici, per instaurare un diverso e più ricco gradiente espressivo. E’ in questo senso che possono essere lette opere come Piombi, del 1968, in cui le vasche di piombo e la barra di rame funzionalizzano la loro natura all’evento che determinano, al processo di trasformazione suscitato dalla presenza di acido solforico e acido cloridrico. Lo stesso accade in Scrittura bruciata, in Pelle di mucca, in Torce, degli anni 1968-69, in cui le modificazioni e le alterazioni relative fanno aggio sull’organizzazione materiale, che si determina come sistema mutante piuttosto che come struttura tipizzata, oggetto di percezione univoca. E’ nello stesso ambito che nascono le prime Per purificare le parole, uno schema problematico che negli anni Settanta troverà – pur con sostanziali varianti – una serie cospicua di declinazioni (recentemente da Ink a Zurigo, da Ala a Milano e all’ultima Biennale di Venezia).
In questi lavori Zorio opera comunque ancora a livello implicito sul linguaggio, e non ne ha ancora messo in gioco la convenzionalizzazione più compiuta e stereotipata, la parola. Ciò accade in una serie di operazioni datanti dal 1969, in cui è l’immagine stessa della parola a entrare nel processo delle mutazioni mentali, delle proposizioni energetiche che si generano dal piano fisico/biografico dell’esperienza: le versioni di Odio, e poi Fluidità radicale, Confine: eccetera. A questo punto – e siamo all’inizio degli anni Settanta – Zorio ha messo circolarmente a fuoco il proprio orizzonte problematico, e dispone di alcuni sostanziali punti fermi. La nozione di energia come aspetto processuale della materia, innanzitutto, e poi come possibilità di procedere per addensamenti e dilatazioni entro lo spessore totale, antropologico del linguaggio. In secondo luogo, quella di immagine come organismo non statico, che attraverso le trasgressioni del piano formale assume connotati significativi estremamente fertili. In terzo luogo, un’idea di scultura intesa come punto d’intersezione tra le tensioni relative che, ai diversi livelli, determinano la proposizione artistica: non quindi, come “unum” statico, ma come pausa di una fluenza dinamica complessa.

Zorio, Colonna, 1967
Da qui scatta un percorso che, impropriamente, si potrebbe definire di accorpamento formale, cioè di ridefinizione di una “presenza” comunque compiuta dell’opera, di qualificazione iconica inglobante i processi di mutazione energetica e non funzionalizzata ad essi: se, nel 1971, il Pugno fosforescente può essere ancora considerata una “macchina per energia”, la pelle Senza titolo del 1972 e quelle successive, le stelle di giavellotti che si susseguono dal 1974 in poi e le versioni di Per purificare le parole degli ultimi anni indicano chiaramente proprio un andare verso nuove possibilità di strutturazione chiusa. Che, naturalmente, formulando un’ipotesi consapevole di contesto iconico, pone l’accento più sulla trasgressione degli standard dell’immagine, sulla trasformazione per ridondanza o sottrazione dei suoi schemi significativi, piuttosto che sulla loro evidenziazione dall’esterno.
Tutto ciò consente l’attivarsi di altri meccanismi, che vanno dalle accelerazioni e rallentamenti di lettura agli scambi analogici tra gli elementi impiegati, alla liberazione di suggestioni simboliche profonde, che mantengono teso e ambiguo il processo di continua modificazione linguistica. Inoltre, suscita nuovamente la confluenza in questo ambito delle valenze autonomamente significative dei materiali (ferro, rame, pelle, vetro, alcool, eccetera) la cui sostanza fisica lievita fino a tornare parte integrante, segno nel segno, della proposizione artistica, della sua enfatizzazione visiva. Quella che Zorio propone è, dunque, la formulazione di un concetto di opera che, dalla radicale trasgressione degli inizi, giunge ora a maturazione come organizzazione intimamente autonoma e congruente ad altissimo potenziale significativo.