Reimondo. Reinventare i segni
Reimondo. Reinventare i segni, in “Amadeus”, 311, Milano, ottobre 2015
Cosa accade quando uno dei protagonisti dell’ultima avanguardia artistica si misura con un capolavoro musicale?
Il caso di David Reimondo è per molti versi esemplare. Genovese, classe 1972, Reimondo lavora ormai da tempo nel suo studio milanese all’implicazione sistematica del suono nell’operazione visiva, in nome di un’artisticità che, fedele negli intenti alle avanguardie migliori di primo ‘900, esca dai propri confini disciplinari convenzionali e affronti una misura insieme più profonda ed espansa dell’estetico.
Da qualche anno lavora su un sistema di segni fondamentalmente ideografici in grado di esprimere, al di là degli alfabeti convenzionali, un intero mondo di significati: “se veramente vuoi venire a conoscenza della tua interiorità più incontaminata, devi liberarti dei simboli con cui parli, non dei significati di cui parli, e per farlo devi sforzarti di reinventarne i segni”, dice.
Che ciò implichi, naturalmente, anche l’aspetto sonoro, è un aspetto necessario, che lo ha portato a esplorare un filone specifico in cui le sue opere siano, in essenza, macchine sonore di diversa concezione proprio rispetto ai modelli che abbiamo ereditato dalle avanguardie storiche.
Allora – si pensi agli Intonarumori di Luigi Russolo, ad esempio – l’operazione era sostanzialmente distruttiva, mirava a mettere in scacco l’idea stessa di suono e di musica misurandola con l’universo dei rumori e il fatto che essi fossero considerati privi di qualità e di senso: e di concepire una macchina che si sostituisse al musicista era di per sé una fonte di scandalo.
Ora, passata la soglia della fine della modernità, e in un mondo in cui le possibilità tecniche di produzione e riproduzione del suono si sono ampliate oltremisura, ragionare sul suono è concepire situazioni musicali che abbiano la propria ragione in se stesse, e che si propongano come proposte costruttive, capaci di produrre un senso ulteriore.
Per questa ragione, e partendo da questa consapevolezza, Reimondo ha concepito una scultura dedicata al Parsifal, eletta come una delle pietre miliari della nostra coscienza musicale.
Visivamente l’opera, intitolata Zevmiram e realizzata nel 2014, si presenta come un disco di un metro e mezzo di diametro circa, composto di tubi in pvc argentato di lunghezza e diametro diversi tali da evocare da un lato le canne di un organo, e dall’altro, nel profilo vagamente conico, innescare la suggestione un profilo di montagna, il Montsalvat dell’opera wagneriana. All’interno delle canne sono nascosti degli altoparlanti comandati da una scheda che distribuisce anche spazialmente l’emissione sonora.
L’elemento di autentica sorpresa è il materiale audio originale che lo stesso Reimondo ha concepito, sfruttando sapientemente le possibilità del digitale. Una voce recitante intesse una sequenza verbale inintelligibile ma dal preciso clima d’intensità emotiva. Essa si interseca con un flusso musicale fatto di schegge assunte da fonti diverse, dal canto gregoriano alla musica di Wagner, in modo da sintetizzare, in un tempo di circa sei minuti, non la vicenda narrativa del Parsifal, ma la rosa di suggestioni profonde che l’opera wagneriana è in grado di suscitare. In altri termini, proprio nel solco della miglior avanguardia artistica Reimondo ha scelto di procedere per equivalenze, restituendo un flusso emotivo e intellettuale e non la superficie del discorso.
Un’operazione simile egli ha svolto, naturalmente, anche sul piano della poesia, realizzando Poesia di 3 metri, del 2012, in cui a essere affrontata è soprattutto la dimensione della verbalità, della suggestione fisica del suono della voce, uno degli aspetti che la nostra abitudine alla lettura silenziosa ha fatto quasi definitivamente trascolorare.
L’opera dell’artista ha tutti i tratti della contemporaneità, ma non si pone provocatoriamente al di fuori del solco della tradizione, quella classica della musica e quella sperimentale moderna: certo ha ben presente alla memoria la celebre affermazione di Strawinskij secondo cui la tradizione non si rispetta, perché la si ama.