Oppo. Ritorno all’ordine, in “Amadeus”, 310, Milano, settembre 2015

“Bisogna andare non solo ad ascoltare, ma specialmente a vedere la Lucrezia Borgia”, scriveva un critico romano nel 1933, elogiando la “magnificenza degli scenari del pittore Cipriano Efisio Oppo che, con questa sua fatica, si è messo in prima linea, tra gli scenografi non solo italiani, ma di tutta l’Europa”.

Oppo, Autoritratto, 1927

Oppo, Autoritratto, 1927

Personaggio oggi pressoché dimenticato, Oppo è stato una delle figure maggiori dell’arte tra le due guerre, non solo nel campo della pittura ma anche in quello del disegno d’illustrazione, largamente elogiato da Boccioni già nel 1916, e della scenografia d’opera, l’aspetto meno conosciuto del suo lavoro.

Vicinissimo al fascismo sin dai tempi della sua incubazione – i suoi disegni satirici, oltre che le sue recensioni, escono in “L’Idea Nazionale” di Luigi Federzoni – e conscio dell’importanza del contributo che un intellettuale consapevole può offrire alla gestione della cosa pubblica, Oppo è eletto deputato nel 1929 assumendosi, in quel clima ispirato al consenso acritico, il ruolo di difensore della libertà espressiva dell’arte da ogni padrinato politico. Si fa anche valente organizzatore culturale: sua è, tra l’altro, la fondazione nel 1931 della Quadriennale di Roma, in si affermano artisti fuori da ogni schema ideologico come  Scipione, Mario Mafai, Antonietta Raphaël, Antonio Donghi, Fausto Pirandello.

Un personaggio così non può non essere attratto dalla scenografia d’opera. Gli anni ’20 sono quelli in cui anche in Italia, per merito di figure come Duilio Cambellotti e soprattutto Nicola Benois, si consolida la concezione moderna di scenografia come elemento non accessorio e servile della rappresentazione, e in cui sull’esempio parigino diventa consuetudine coinvolgere grandi pittori nella realizzazione degli spettacoli.

Nella sua posizione d’artista Oppo predica “semplicità contro verbosità e lusso melenso; intelligenza contro ingegnosità e teoria”, e ancora “scelta ed esaltazione degli elementi naturali” ma mai “copia fredda, analitica della natura”, e soprattutto “mai gusto dell’orrido, del deforme, del mostruoso, dello strano, dell’astruso”: è dunque perfettamente allineato al “ritorno all’ordine” seguito alla stagione delle avanguardie internazionali, ma senza nostalgie passatiste, anzi in nome di una modernità non avventurosa e ben radicata nella storia.

Oppo, Scena per La donna serpente di Alfredo Casella, 1932

Oppo, Scena per La donna serpente di Alfredo Casella, 1932

Nel 1932 avvia una collaborazione più che decennale con il Teatro Reale dell’Opera di Roma debuttando con la prima assoluta di La donna serpente di Alfredo Casella, che si vuole promotore di un nuovo rinascimento musicale italiano ed è amico e collezionista di grandi artisti, a cominciare da Giorgio De Chirico. Da quel momento Oppo si dedica continuativamente al grande repertorio, con la Lucrezia Borgia di Donizetti nel 1933, Il pirata di Bellini e Don Carlos di Verdi nel 1935, Il flauto magico di Mozart nel 1937, La donna senz’ombra di Stauss  nel 1938, Carmen di Bizet nel 1939, Lohengrin di Wagner nel 1942, Falstaff di Verdi nel 1943.

Ma questo è l’aspetto meno importante del suo contributo alla scena. Forte della sua autorevolezza (è indubbio che il prestigio politico di cui gode gli è di grande aiuto) egli accompagna sulle scene la nuova generazione della musica italiana contribuendo alla sua affermazione: da Gianfrancesco Malipiero con La favola del figlio cambiato, 1934,  a Franco Alfano con il Cyrano de Bergerac nel 1936 e La leggenda di Sakuntala nel 1940, da Italo Montemezzi con La nave, 1938, a Riccardo Zandonai con Giuletta e Romeo, 1941, e a Ottorino Respighi con Belfagor, 1942.

Il suo stile moderno ma cautelato, la scelta di non imporre la propria cifra pittorica a ogni costo, ne fanno uno degli scenografi più interessanti degli anni ’30. Anzi, va detto che se il suo impegno culturale dispiegato su più fronti ha una vera vittima, è la sua personalità di pittore, che egli mette progressivamente in secondo piano.

Visto il suo ruolo di eminenza politica, la caduta del fascismo lo consegna a un rapido oblio. Ancora nel 1946, tuttavia, dà le scenografie per Thais di Massenet, che sono il suo ultimo lavoro per il palcoscenico.