Locatelli
I Locatelli, Palazzo della Provincia, Spazio Viterbi, Bergamo, 9 marzo – 29 aprile 2012
1. Recensendo nel 1925 la “Mostra triennale di scoltura e pittura all’Accademia Carrara”, Coniele Dartis annuncia “la rivelazione di un nome che fino ad ieri era stato relegato su negli abbaini, o sui ponti di un decoratore da sala o da chiesa: il giovanissimo Romualdo Locatelli”, nella cui pittura “tutto è luce, è colore, è anima, è tormento, è forza di disegno, è canto chiaro di toni” (1).
L’articolo è importante non solo perché ufficializza la qualità precoce di un giovane talentuoso, ma perché attraverso la figura di Romualdo Locatelli legge l’emergere, alla consapevolezza della cultura che si vuole ormai alta, di una tradizione altoartigianale di pittura che l’artista assume dalla cospicua bottega famigliare e che, non riconosciuta e anzi per troppi versi disdegnata dal sistema nuovo delle arti, pure delle arti belle è radice e humus, in una congeneità che giusto quel tempo sta prendendo a vivere con qualche disagio.
Quando, di lì a pochi decenni, quello dei Locatelli sarà letto come un vero e proprio caso, soprattutto per lo snodo che conduce gli esponenti più giovani della famiglia alla visibilità in seno al milieu artistico bergamasco e non, si tenderà a sottovalutare il peso specifico della cultura di bottega, di formazione diretta nel mestiere, di scambio laicamente sapienziale di possessi tecnici, ch’è tipico della famiglia e degli stretti vincoli reciproci che vi si vivono, rispetto allo schiarito cursus formativo in seno alle istituzioni bergamasche di insegnamento, la benemerita Scuola Fantoni e l’Accademia Carrara in testa.
In altri termini, si tenderà a dilatare la discontinuità tra la stagione in cui centrale è la bottega famigliare, fondata da Giuseppe Locatelli e dai figli Luigi e Gian Battista, e quella dell’emergere delle singole specificate figure artistiche, scese dai ponteggi per affrontare le acque nobili del dibattito artistico.
Eppure, avvertiva ancora nel 1990 Trento Longaretti nella commemorazione di Stefano Locatelli all’Ateneo bergamasco (2), esiste una tipicità della “cultura artistica bergamasca dell’Ottocento e del Novecento che è ancora tutta da studiare e da approfondire”, e che si fonda proprio sul legame indissolubile tra bagaglio disciplinare artigianale e consapevolezza estetica, tra un rapporto non problematico, non agonistico con la tradizione e il nuovo: dai Trécourt a Francesco Coghetti, per intendersi, e non dimenticando la formazione solida e cautelata di un Piccio.
Ed è solo nel 2009 che Francesco Rossi, scrivendo dell’Interno di Santa Maria Maggiore, 1926, di Luigi Locatelli (3), riflette: “anche ammettendo che esistesse nel ceppo famigliare uno specialissimo gene che predisponesse alla professione artistica il ‘caso Locatelli’ mi è sempre sembrato esemplare di un modo antichissimo di intendere la trasmissione del sapere e un’occasione per reimmaginare la struttura e l’organizzazione delle antiche botteghe artigiane, ove i giovani imparavano dal padre il mestiere, l’attitudine al lavoro”, condizione da cui muovere pariteticamente verso le scommesse del genio oppure verso una misura “di onesto e operoso artigiano che quietamente mette a punto gli strumenti della sua professione”.
Alla luce di queste valutazioni il “caso Locatelli”, unico forse tra Ottocento e Novecento per compattezza e ampiezza generazionale, consente anche riflessioni di più ampio spettro sulle ragioni di un’arte nascente dal mestiere, procedente per evoluzioni in via di continuità e tutto sommato sospettosa dell’eccesso intellettualistico, che la pratica accademica – da Brera alla Carrara – ha coltivato e alimentato ben oltre i confini angusti e miopi comunemente assegnati dalle cronologie novecentesche. Dico di un clima che ben intendeva la modernità ma la interpretava a partire da un reticolo di postulati fondanti: il rispetto, etico in luogo che retorico, del magistero tecnico; il retaggio ottocentesco come serbatoio problematico anziché di modelli o per converso di specchiamenti polemici; l’attenzione al visibile naturale come fuoco dell’esperienza affettiva del mondo; il confronto con la modernità accolto e meditato quando non si presentasse sotto i vessilli dei fideismo, dell’ideologia del nuovo.
Un clima di cui l’ambiente artistico bergamasco è stato, nel Novecento, focolaio tutt’altro che banale, per quella sua delucidata inattualità, per il lavorare sulla prospettiva lunga della durata e d’una pittura di valori anziché di linguaggio: per il suo fare, anche, dell’essere provincia non un disvalore meramente conservativo ma un ambito di naturale presa di distanze, di agio riflessivo, di rimeditazione continua di non trascurabili ragioni identitarie.
2. Dunque, i Locatelli. Vengono dapprima il capostipite Giuseppe, detto Steenì, Stefanino, morto nel 1917, e i figli Luigi (1883-1928) e Giovan Battista (1884-1923).
È con loro che la bottega si forma e si consolida. È con loro che l’arte si identifica primariamente con un fare di scrupolosa perizia tecnica, con una mozione di gusto che, prima ancora d’essere strategia consapevole, è adesione verrebbe da dire vocazionale a statuti professionali cui si dà piena adesione, senza distinzioni effettive fra trasmissione diretta e concreta del sapere altoartigianale e nutrimenti cólti: vivente un orgoglio che non è dell’aristocrazia intellettuale ma dell’eccellenza fabrile, e in cui ancora risuona l’antica identità dell’artifex.
Giuseppe e i figli lavorano per committenze private e, più, ecclesiastiche, forti della sapienza solida dell’ornare, del declinare in piena identità professionale, per via di modalità scrupolose e approfondite e di una coscienza amorevole dello “scegliere e ricomporre”, i valori di un eclettismo in cui posizioni neorinascimentali e neogotiche, con venature di robusto medievalismo purificato e accelerazioni di rocaille alla veneta, informano di sé la cultura della committenza ufficiale e di quella nuova, tanto da far da brodo di coltura alla partecipazione nostrana al liberty, nella versione aggraziata del floreale.
I tempi son quelli in cui il dibattito sul bello possibile è animato da figure come Giovanni Morelli, Camillo Boito, Alfredo D’Andrade, Corrado Ricci, Giuseppe Brentano, Giuseppe Bertini, Lodovico Pogliaghi, capaci d’intessere uno standard tecnico e di stile in cui il lavorare “all’antica” passa per i rami anche alle periferie culturali facendosi garanzia di continuità nobile con una tradizione vissuta come garante.
È, certo, prima d’ogni altra cosa gusto, come dimostra anche il diffondersi rapido, nei medesimi ambiti di committenza, del liberty che l’Esposizione milanese del 1906 consegna immediatamente alle derivazioni vulgate, e in cui Giovan Battista – per passione diversa e privata, ma tutt’altro che ordinaria, anche maestro del teatro di burattini, tanto da esser detto in città il “principe del giopì” – da subito si cimenta. Ma è un gusto che non intende meramente citare e rendere omaggio, bensì rivivere il mondo stilistico e inventivo del passato grande attraverso l’acquisizione e l’elaborazione d’un repertorio filtrato e consolidato, facendosene atto di comprensione profonda e di reinvenzione a partire dalle stesse frequenze espressive e dagli stessi fondamenti fabrili.
Quanto tale congiuntura sia decisiva nell’ambito d’arte bergamasco è detto da due fatti cruciali. Nel 1898 viene fondata la Scuola d’arte applicata all’industria Andrea Fantoni, il cui insegnamento proprio Camillo Boito, primo presidente dell’istituzione, orienta nel solco di una continuità altoartigianale in cui il retaggio aulico della tradizione sia garanzia della modernità possibile: “Quale indirizzo prenderà la decorazione nel futuro secolo non è facile immaginare, ma dotando la città di una buona scuola, si avrà provveduto al mezzo di trarre insegnamento e profitto dalle belle nostre tradizioni antiche e non rimanere estranei alle migliori e più geniali applicazioni moderne”, egli scrive.
L’anno dopo, alla direzione dell’Accademia Carrara Ponziano Loverini succede a Cesare Tallone: segnando non solo il ritorno a un gusto più cautamente accademico, ma anche il prevalere di un sobrio intendimento professionale della pittura in luogo della predilezione per la ricerca “pura”, con forti estroversioni del temperamento individuale, propugnata da Tallone: il quale pure è stato, comunque, allievo di Bertini (4).
Corollario naturale, è in quelle stagioni che si consolida in Bergamo una illustre nuova tradizione del restauro, territorio di scambio operativo e intellettuale con le ricerche formali individuali assai più fertile di quanto altrove non accada, e di quanto normalmente la critica non sia disposta ad ammettere.
In questa vera e propria officina bergamasca della forma si consolida la bottega Locatelli, la quale trova inizialmente in Luigi il suo esponente qualitativamente più cospicuo, in grado di farle compiere il primo decisivo salto di qualità rispetto al mero, e pur elevato, mestiere.
Nel breve volgere d’anni che corre dal 1914, anno della prima commissione in San Giovanni dei Boschi, nell’attuale comune di Scanzorosciate, al 1928 che ne vede la morte precoce, Luigi opera intensamente, e con mestiere vigoroso, soprattutto nell’ambito dell’arte sacra e del restauro. Frutto degli insegnamenti paterni quanto della formazione alla Scuola Fantoni, la sua cultura visiva si fa capace di una sorta di saporosa scenografia decorativa, in cui venature nevroticamente moderne s’immettono nel patrimonio iconografico di scuola ad alimentarne il senso di vago trasognamento tra passato e presente.
Sui ponti delle sue imprese decorative Luigi è spesso accompagnato, dalla fine degli anni Dieci, dal figlio Romualdo, il quale dà, negli anni dell’adolescenza, le prime prove d’una maestria che di lì a pochi anni, s’è accennato, ne farà una figura accolta subitamente e in pompa magna nell’ambiente artistico ufficiale.
3. Il successo di Romualdo Locatelli (1905-1943) alla Triennale della Carrara, immediatamente doppiato dalla presenza alla Biennale milanese di Brera con la stessa opera, Dolore, presentata a Bergamo (e oggi alla Carrara), dice non solo del suo talento precoce, ma, rispetto all’orgoglio di mestiere del padre e dello zio, della mutazione netta d’atteggiamento nello stesso concepirsi pittore.
Allievo di Loverini, l’artista vive piuttosto il mito di Tallone, che significa non solo la coltivazione fastosa del proprio temperamento singolare, in una sorta di accelerazione del naturalismo ottocentesco che la limitatissima critica nostrana s’ingegna di definire impressionismo, e di enfatizzazione delle sprezzature di gesto e di materia (di Tallone è Ciro Caversazzi a dire d’una pittura “d’impasto, con pennellate franche e massicce il cui movimento segue il verso degli oggetti, con tinte ricche e generose o improntate alla prima o elaborate e risolte ultimamente con rapidi e vigorosi tocchi”: lettura per intero applicabile anche a Romualdo (5)), ma anche la disinvoltura brillante nel muoversi tra commesse e ricerca autonoma, la consapevolezza che un cursus honorum si edifica e percorre agendo nei centri che orientano il gusto, e presso le gallerie che di quel gusto si fanno promotrici prime.
Immediatamente dopo il successo del 1925 eccolo trasferirsi a Milano, ove rimane sino al 1929 e all’occasione della prima doppia personale, alla Bottega d’Arte di Bergamo e alla Galleria Bardi di Milano. In quegli anni, punteggiati da fitti viaggi sul motivo tra i quali spicca quello del 1927 in Africa con il concittadino, amico e collega Ernesto Quarti Marchiò, in cerca d’esotismi visivi (6), Romualdo Locatelli ritrova a Milano, amplificato e affinatissimo, il gusto pittorico nel quale è cresciuto, e che un ventennio di magistero di Tallone a Brera ha ulteriormente radicato. Dal 1920 la cattedra di pittura a Brera è tenuta da Ambrogio Alciati, di Tallone allievo (come peraltro, negli anni, sono stati Pellizza e Palanti, Bonzagni e Carrà, Bucci e Carpi, e poi Salietti, Malerba, Barbieri, Frisia, Lilloni, per dire d’una continuità non banale), il che significa il prolungarsi assaporato delle squisitezze frementi dei Boldini e dei Cremona in un fare fortificato dal possesso saldo dei fondamenti accademici.
I numi del trapasso naturale tra Otto e Novecento sono gli Antonio Mancini, Mosè Bianchi, Emilio Gola, attraverso i cui modelli Locatelli amplifica, in una sorta di continua captazione vorace, il suo piglio naturale.
La “voluttà incomparabile” nel dipingere che gli si riconosce (7), unita a una chiara consapevolezza di possedere doti naturali in virtù delle quali egli tende a dispensarsi dall’affrontare questioni problematicamente più cospicue, lo porta ad assettare la propria pittura su due pilastri fondanti. Da un canto è il cogliere il motivo in una sorta di captazione visiva diretta, che si traduce in un pennelleggiare fluente e sensuale attraverso cui esso vien declinato in un fremere di materie che dialogano serrate con la luce.
Dall’altro è la predilezione per il pittoresco, per l’esotico – che si tratti d’Africa o di Sardegna non è essenziale – e per la posa eccentrica o aneddotica: in una parola, per soggetti in grado di generare una sorta di non mediato piacere visivo, che la conduzione del dipinto s’incarica di dilatare e rendere durata emotiva.
In un’acuta lettura di Alfonso Vajana (8) si legge una sintesi per certi versi perfetta dell’atteggiamento pittorico dell’artista: “ottocentista, egli esprime l’arte dell’ottocento con una tale sua aria sbarazzina, con una tale sua freschezza monellesca, con una tale sua audacia, sia pure frettolosa, da far scordare il passato dal quale attinge”.
Mira a riconoscimenti sempre più ampi, Locatelli, ben conscio che la mescolanza perfetta di gusto accertato e di brillantezza pittorica può porsi in sintonia perfetta con quello prevalente presso la committenza dei tastemakers nostrani. Passa a Roma, tappa ulteriore d’un continuo spostarsi di centro in centro, e per il tramite dei vigorosi ritratti di Ida Banfi e del cardinale Todeschini esposti nel 1938 in una personale allo Studio Jandolo ottiene la commissione ufficiale, da parte del Principe Umberto, dei ritratti di Vittorio Emanuele e Maria Pia, rampolli di casa Savoia: il ritratto del Principe di Napoli sarà, quello stesso anno, alla Biennale veneziana.
Ma subito l’irrequieto Romualdo ambisce al palcoscenico internazionale. Nel 1939 è a Giava, poi a Bali, e per l’ultimo quadriennio della sua attività, trascorso tutto nel Far East, la valentia di ritrattista si affianca al libero sfogo del suo piglio di pittore esotico, nutrito delle memorie non banali dei luminismi veneti che da sempre radicano il suo paesaggismo.
4. La scomparsa improvvisa e per certi versi misteriosa di Romualdo, nel 1943, coincide con l’acme dell’attività degli altri membri qualitativamente eminenti della sua numerosa famiglia.
Quasi coetanei gli sono, per verità, Luigi detto Bigì (1904-1983) e Ferruccio Locatelli (1906-1966), figli e allievi di Giovan Battista: dal padre Ferruccio eredita, tra l’altro, la passione autentica per i burattini.
Luigi, il primogenito, è alla Fantoni e poi, con Romualdo e Quarti Marchiò, alla scuola di Loverini, per la quale anche Ferruccio passerà: e tuttavia non fa mostra dello stesso estro da subito autorevole del cugino. Nei modi, più d’una somiglianza li avvicina, ben leggibile soprattutto nella baldanza dell’Autoritratto del 1926-1927 ch’è tra le sue opere migliori, per quel lasciar vibrare la pennellata nel fasto della materia pulsante e per quel risentire emotivamente il soggetto. Ma la sua pare una vocazione irrisolta, che neppure un non breve soggiorno parigino riesce ad alimentare d’invenzione. La sua attività matura sarà di valente restauratore, a marcare anche la consapevolezza di se stesso e della propria misura intellettuale che lucidamente lo guida.
Ferruccio, dal canto suo, tenta la via d’una attenzione maggiore al dibattito artistico corrente, mediando la propria predilezione per scene basse di marca ottocentesca con umori novecenteschi e d’un precoce primitivo nella semplificazione delle forme e nella solidità dei costrutti, sino ad attingere a umori esplicitamente postmetafisici, non distanti per intento dalla congiuntura Carrà-Sironi: esemplare, in tal senso, è un’opera come Annunciazione, 1930, che nella sua secchezza dimessa e potente si fa pianamente comparabile con le prove coeve di Giacomo Manzù, sodale d’una vita, nel segno di un primitivismo che a quelle date s’intende il semplificarsi del dato di referenza a schema decantato, assottigliato in umori di tarsia, in cui echi d’antigrazioso di sovrappongono e contaminano con una volontà d’anticlassico che molti perseguono, soprattutto in ambito milanese (8).
“Sensibile a tutto, soprattutto ai timori e alle ansie dell’arte attuale”, come testimonierà Manzù (9), Ferruccio Locatelli lascia Bergamo giusto un anno dopo il debutto alla Pro Arte nel 1929 ed è con l’amico scultore e con il fratello Luigi nella Parigi degli anni Trenta, quasi a volervi risolvere il disagio per l’orizzonte di cultura in cui s’è formato e che gli appare troppo ristretto. Nel confronto con il milieu parigino la sua via, però, anziché mostrarsi più chiara pare confondersi, involvendosi nel secondo dopoguerra, dopo il ritorno a Bergamo, in una serie di esperimenti astratti che dicono del suo desiderio forse ancor vivo di uscire da un’impasse fatale, senza tuttavia pervenire a esiti convincenti.
Sono i Locatelli più giovani, i fratelli Raffaello e Stefano figli di Luigi Steenì e Orfeo figlio di Giovan Battista, a mostrare gran carattere d’artisti nelle congiunture nuove che il dibattito artistico va vivendo.
5. Nel segno della continuità, figura di riferimento dell’insegnamento pittorico alla Carrara è divenuto dal 1930, e sino al 1945, Contardo Barbieri, cresciuto a Brera con Tallone e Alciati e prosecutore d’una pittura d’impianto naturalistico animata da una trepida sensiblerie coloristica. Gli succede Achille Funi, reduce da anni cruciali d’insegnamento a Brera (10) e membro autorevole della giuria delle prime tre edizioni del Premio Bergamo (1939, 1940, 1941), la manifestazione che pone la città al crocevia del grande dibattito artistico nazionale in uno dei periodi più complessi e delicati del Novecento, che fa da palestra fervida per la maturazione della generazione nuova e che schiude una stagione fitta di premi artistici cittadini: il Fra’ Galgario nel 1945, la Mostra nazionale d’arte sacra al Palazzo Tre Passi nel 1946 (e poi nel 1948) e, lo stesso anno, il Premio della Miniera alla Galleria Tamanza, la Mostra dell’autoritratto alla Permanente nel 1948, il Città di Bergamo nel 1949 alla Galleria della Rotonda, su su sino al Premio Dalmine, attivo dal 1954 (11).
È in questo contesto che s’afferma Raffaello Locatelli (1915-1984), per qualità espressiva e per compiutezza di personalità l’esponente della famiglia di più incisiva presenza sulla scena artistica italiana, anche se non dotato del fascino avventuroso e della vena talentuosa di Romualdo.
Di dieci anni più giovane del precoce fratello, dalla bottega paterna Raffaello apprende soprattutto la disciplina del fare, l’etica feroce del disegno e lo scrutinio del colorire, la cautela meditata dell’esperienza e della ricerca paziente. Studia alla Fantoni e poi, con il cugino Orfeo, nell’aula di Barbieri alla Carrara in un torno d’anni che vi vede crescere tra gli altri Mario Cornali ed Egidio Lazzarini, Erminio Maffioletti e Giuseppe Milesi, Giuseppe Ugo Recchi e Anna Nascimbene Tallone, cioè la compagine dei protagonisti della stagione fervida dei premi bergamaschi del dopoguerra.
Della moderna formazione accademica Raffaello Locatelli preserva alcuni elementi che ritiene fondanti, a partire dal lavoro diretto sul modello e sul motivo volto soprattutto a instaurare una consonanza emotiva che l’autonomo formarsi dell’immagine in pittura deve restituire come correspondance. Ma il suo è un crescere e un agire ben avvertito in seno al dibattito contemporaneo, e non limitato soltanto agli echi di quanto perviene nel milieu bergamasco.
Il Lago d’Iseo che presenta nel 1941 al Premio Bergamo, dopo aver già preso parte alle edizioni del 1939 e del 1940, lo colloca a pieno titolo nell’orizzonte del cézannismo mediato dalla pittura lombarda del tempo, quella per intenderci dei De Grada, Salietti, Vellani Marchi, Consadori, con Semeghini e soprattutto Tosi a far da figure carismatiche.
Tosi, e per altri versi Carrà, quanto meno per ciò che concerne i presupposti intellettuali e di poetica che Raffaello si assetta: a cominciare, appunto, dal lavorare sul “principio delle evidenze”, ma evidenze che siano di pittura, tutte, ovvero la luce e la corporeità altre d’una disciplina che sa, orgogliosamente e senza arroganze ereditarie, la propria precisata identità storica, e insieme la propria sottile e dubitante condizione moderna.
È il Carrà, per intenderci, che risponde alla presenza dei dipinti di Cézanne alla Biennale veneziana del 1920 acuminando le proprie riflessioni intorno alla “misticità” del paesaggio, che è rapporto fondativamente emozionale in cui può viversi un’esperienza introspettiva fatta di tensione affettiva e lirismo, e che attraverso ciò giunge a recuperare in modo non ortopedico la tradizione romantica ottocentesca (12).
Da quei maestri Raffaello Locatelli deriva la consapevolezza che una pittura moderna è possibile proprio riflettendo sul retaggio, lontano e prossimo, dell’arte: con amore senza rispetto, e anche ripartendo da un esercizio criticistico dei generi, paesaggio ritratto natura morta, tipicamente novecentesco.
Il 1946 è l’anno di svolta della sua vicenda. Con il Cristo deriso ottiene il primo premio, ex-aequo con una Crocifissione di Aligi Sassu, alla Mostra d’arte sacra di Bergamo, e insieme debutta con il fratello Stefano in una personale alla Galleria Tamanza. Il suo contributo alla grande stagione italiana dei premi è intenso: è al Michetti dal 1949 al 1958 (vi sarà premiato nel 1955), al Marzotto tra il 1953 e il 1957, allo Spezia nel 1953,1954 e 1957, al Suzzara nel 1953,1954, 1956, a molti altri ancora.
Si fa autore di robusta figurazione, retta da una struttura grafica laboriosa e solida, nei ritratti e nei nudi: ma è, vocazionalmente, pittore di paesaggio.
Girovago alla ricerca di climi visivi diversi, trova la propria chiave in un’“ampia gioia narrativa e paesistica” (così Orio Vergani) forte di un luminismo che fa scrivere a Leonardo Borgese che egli “sembra appartenere alla famiglia dei tiepoleschi”, in perfetto equilibrio fra tradizione alta e modernità: “non è stato un innovatore – scrive di lui Lino Lazzari – ma un attento osservatore del passato e del presente” (13).
In Raffaello Locatelli sempre si avverte il vaglio inflessibile delle condizioni di necessità dell’elemento formale, il declinarsi innestato dei piani, la spaziosità cadenzata e padroneggiata, l’identità sensoriale del colore/luce.
Ma egli, qui sta il suo carattere primario, non ammette di sacrificare una più rilassata cantabilità pittorica sull’altare del costrutto, del primato mentale della formatività d’immagine, lasciando affiorare una sorta di grazia lievitante e pudica, e insieme l’evidenza sensuosa delle immagini. Rigore, ma anche profondo, risentito, amore di pittura, dunque.
Dai paesaggi nordici degli anni Cinquanta alle lunghe frequentazioni veneziane, su su sino alle ultime opere dei primi anni Ottanta (in cui fanno spicco le vibranti visioni maremmane che paiono un omaggio estremo e libero a Cézanne), Raffaello Locatelli sempre coniuga una solida moralità della pittura a una sensualità vagliata nel profondo: e vale anche per lui ciò ch’è stato scritto acutamente proprio di Carrà: “il dipingere paesi tira dal lato di un dipingere autoritraendosi” (14).
6. Più giovane di quattro anni di Raffaello, il cugino Orfeo Locatelli (1919-2000) è dal 1936 un altro degli allievi di Barbieri alla Carrara, e già nel 1939 è accolto alla prima edizione del Premio Bergamo.
Solo a molti anni dopo, al 1956, data la prima personale alla Galleria della Rotonda in Bergamo: ma nel frattempo più riconoscimenti gli toccano nella stagione dei premi. Orfeo Locatelli tende a una pittura istintiva e sciolta, forte dei propri naturali accenti narrativi sino al bozzettismo. È, la sua, una declinazione del naturale che si vena appena – e più nelle tematiche che nei modi – dell’iconografia ordinaria di stampo neorealista, accelerando invece sul piano d’una corsività che si vuole sapida.
Anche in questo caso, può dirsi d’una mediazione tra le spinte dell’attualità del dibattito artistico e un radicamento ottocentista che s’intende non di profilo passatista, non di sclerosi tradizionale, bensì di piacere accolto d’un pittoricismo saporoso che si sappia ancora narrazione, aneddoto anche, purché fitto di brividi vitali.
“La pennellata immediata e sciolta è insieme elemento di colore e di forma, tocco magistrale che ‘narra’ ma nello stesso tempo appone il tono esatto accanto al tono che gli sta vicino in un modo di ‘fare pittura’ felice e di alta qualità, immediata e serena e pacata” scrive infatti di lui Longaretti.
L’aproblematicità e il vitalismo di Orfeo Locatelli valgono a un tempo da pregio e limite d’una pittura che tutto riassume nel gioco sottile delle tonalità, ma sottraendosi all’ambizione di una costruzione iconografica più ampia e autorevole e tutta giocandosi su una trepida, fastosa leggerezza.
In altri termini, egli non ambisce al “grand genre” che André Félibien nel 1668 poneva al vertice delle ambizioni del pittore, e in genere al monumentale. Orfeo è maestro perfetto e sagace del genere intermedio, quello che accomuna paesaggio, ritratto e scene di vita quotidiana, quello che più la deriva artistica novecentesca ha salvaguardato e continuato a coltivare.
Stefano (1920-1989) è, dei Locatelli, il più giovane anagraficamente, e il più atipico per la sua scelta di volgersi alla scultura. Incrocia presso Gianni Remuzzi, nella cui bottega si forma, Piero Brolis, mentre lontane, anche generazionalmente, gli sono le inquietudini e le scommesse espressive del più maturo e già lontano Manzù. D’altronde la sua personalità conosce piuttosto la sobria meticolosità del fare, l’orgoglio disciplinare della tecnica, che la dismisura della ricerca: in cambio il talento gli conferisce una precocità che lo vede esporre in pubblico già nel 1935, e nel 1938 vedersi acquisire la terracotta Adolescente dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, non dissimile per impostazione e fattura dalla successiva Verità, 1946.
Altre prove di quegli anni, come Prime vanità, 1949, e Giovinetta con specchio, 1950, dalle abbreviazioni sintetiche e sapide che rimemorano gli umori della grande scultura tra Ottocento e Novecento – dico i Barzaghi, Tabacchi, Cecioni, Trentacoste, Grandi, Troubetzskoj, Bazzaro, e affini – o degli anni successivi, come la sfinata e fremente Pittrice del 1965 o il solido Nudo del 1968, indicano un aggiornamento condotto soprattutto sulla tradizione della grande scultura di destinazione civile e religiosa delle generazioni precedenti, senza por soverchia attenzione al cadenzarsi cronistico dei gusti decennali.
Amante dunque di un plasticare che tende ad affinare i volumi in favore di un modulato pittoricismo delle superfici, erede della tradizione tardoottocentesca e primonovecentesca nel lavorare sull’espressività dei volti – il che ne fa un ambìto ritrattista e, soprattutto, un valente medaglista – Stefano Locatelli debutta con il fratello Raffaello nella personale del 1946 alla Tamanza, ottiene fitti riconoscimenti nella stagione dei premi (dalla mostra d’arte sacra bergamasca del 1941, a quella dell’autoritratto del 1948, a quella d’arte sacra all’Angelicum di Milano, 1953), ma è soprattutto alla committenza pubblica, civile e religiosa, che da scultore ossequiente ad antichi statuti professionali si dedica principalmente.
Ecco dunque le prove maggiori della Via Crucis per la Basilica di San Martino ad Alzano Lombardo, avviata nel 1953, della statua monumentale di Giovanni XXIII per il Seminario di Bergamo, 1965-1968, del Monumento ai caduti per Cisano Bergamasco, 1968: opere di solida, saporosamente inattuale qualità.
A fianco, ecco la non banale attitività di medaglista, in cui le prove dedicate a Giacomo Quarenghi, 1967, a Pietro Antonio Locatelli, 1970, a Giovan Battista Moroni, 1978, rendono inoltre ben evidente un orgoglio identitario che Stefano Locatelli avverte pieno e fragrante.
Anche nel suo caso si deve dire d’una moralità del fare che regge, primariamente, il proprio pensarsi artista, un rispetto e un amore per il mestiere che è rivendicazione di valori anziché di linguaggio, un progetto di modernità che attribuisce un valore essenziale e progressivo, non meramente conservativo, al concetto di tradizione, in quanto eredità ma, più, continua non compiacente verifica d’identità.
7. Con Stefano, scomparso nel 1989, e Orfeo, mancato nel 2000, la stirpe artistica dei Locatelli si estingue. Perché i Locatelli son stati dunque, né altrimenti si potrebbe dire, veramente stirpe, in pittura, e per un tempo non breve bottega. In cui non solo è stato il mestiere a tramandarsi, ma primariamente un atteggiamento, una sapienza, e un amore.
Che lungo l’arco di tempo teso tra i due secoli passati una famiglia d’artisti abbia proliferato, dando al mondo personalità diverse e assai individuate, ma accomunate a un tempo da una trama indissolubile di rapporti fabrili e stilistici oltre che di sangue, è in se stesso fatto unico nella modernità, evocante piuttosto la memoria dell’antico artista artifex, tra medioevo e rinascimento.
Ognuno dei Locatelli è autore dotato d’una sua specifica, fragrante qualità: ma tutti insieme danno vita a una vicenda esemplare, che consente di leggere in filigrana il corso dei grandi passaggi generazionali, e culturali, tra Otto e Novecento. In ciò sta, senza tema di smentite, la grandezza prima, l’unicità dei Locatelli.
Note. 1. C. Dartis, Mostra triennale di scoltura e pittura all’Accademia Carrara, in “La Voce di Bergamo”, Bergamo, 7 settembre 1925. 2. T. Longaretti, Stefano Locatelli. Scultore, commemorazione all’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti, Bergamo, febbraio 1990, leggibile in A. Possenti, Stefano Locatelli, Grafica & Arte, Bergamo 1992. 3. F. Rossi, Luigi Locatelli, Interno di Santa Maria Maggiore, in 1300-2000. Il Tempo del Sacro, catalogo della mostra al Museo d’Arte e di Cultura Sacra di Romano di Lombardia, Edizioni dei Soncino, Soncino 2009. 4. Sull’ambiente artistico bergamasco del tempo, si vedano soprattutto F. Rossi (a cura di), Maestri e artisti. 200 anni della Accademia Carrara, catalogo della mostra all’Ex-Monastero di Sant’Agostino di Bergamo, Skira, Milano 1996; P. Mosca, Arte e costume a Bergamo. Ottocento-Novecento, 2 voll., Grafica & Arte, Bergamo 1989. 5. C. Caversazzi in V. Bignami – C. Caversazzi, Tallone, R. Accademia di Brera, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1922. 6. Su tale specifico aspetto F. Rea (a cura di), Dalle Orobie al Maghreb. Gli Orientalisti bergamaschi, catalogo della mostra all’Atelier dei Tadini di Lovere, 1999. 7. G.R. Crippa (a cura di), Romualdo Locatelli, catalogo della mostra alla Galleria Permanente d’Arte Previtali di Bergamo, 1972. D’altro canto sin dalle mostre d’esordio si legge un “evidente e pur meno chiassoso tocco talloniano ed una vigoria esuberante ed ardita di pennellate”: così ad esempio V. Marini Lodola, Romualdo Locatelli, in “L’Eco di Bergamo”, Bergamo, 14 marzo 1929. 8. Di “potente nudità espressiva” scrive S. Bini proprio di Manzù e, sintomatica coincidenza, a proposito di un’Annunciazione, indicando un tema montante con evidenza in seno alla generazione nuova: S. Bini, Giacomo Manzù, antichi, arte sacra, in Artisti. A. Ruggero Giorgi, Luigi Grosso, Fiore Tomea, Lorenzo Lorenzetti, Aligi Sassu, Gian Paolo De Luigi, Giacomo Manzù, Edizioni del Milione, Milano 1932. 9. In Ferruccio Locatelli 1906-1966, catalogo della mostra al Centro Culturale San Bartolomeo di Bergamo, 1982: vi si legge inoltre una testimonianza appassionata di Trento Longaretti, storico compagno di strada di Ferruccio Locatelli. 10. G. Valagussa (a cura di), Gli allievi di Contardo Barbieri, Quaderni dell’Accademia Carrara, 18, Bergamo 2002; La scuola di Funi, catalogo della mostra al Museo d’Arte di Mendrisio, testi di M. Reiner, D. Palazzoli, F. Rossi et aa., Mazzotta, Milano 1988. 11. Sul Premio Bergamo, cfr. L. Galmozzi, L’avventurosa traversata. Storia del Premio Bergamo 1939-1942, Il Filo di Arianna, Bergamo 1989; Gli anni del Premio Bergamo. Arte in Italia intorno agli anni trenta, catalogo della mostra alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, testi di C. Bertelli, N. Cardano, M. Lorandi, E.R. Papa, M.C. Rodeschini Galati, V. Scheiwiller, C. Tellini Perina, G. Uzzani, P. Vivarelli, Electa, Milano 1993. Una ricostruzione partita e assai documentata del periodo si legge in E. De Pascale, Pittura a Bergamo 1945-1959, in M.C. Rodeschini Galati (a cura di), Arte a Bergamo 1945-1959, catalogo della mostra al Palazzo della Ragione di Bergamo, Lubrina, Bergamo 2001. Utili anche le letture di E. De Pascale, I colori e i giorni, in M.L. Legrenzi – E. De Pascale (a cura di), Profili. Aspetti della cultura a Bergamo 1945-1960, catalogo della mostra alla Galleria La Diade di Bergamo, 1992, e F. Rossi – M.C. Rodeschini Galati (a cura di), Collezione privata, Bergamo. Arte italiana del XX secolo, catalogo della mostra alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, Mazzotta, Milano 1991. 12. Di C. Carrà si leggano in particolare Misticità ed ironia nella pittura contemporanea, in “Valori Plastici”, II, 7-8, Roma, luglio-agosto 1920; Artisti lombardi: Arturo Tosi, in “L’Ambrosiano”, 16 dicembre 1923; Pittori romantici lombardi, Istituto Nazionale Luce, Roma 1932. Cfr. inoltre P. Fossati – G. Barberi Squarotti (a cura di), “Amate sponde”. Pittura di paesaggio in Italia dal 1910 al 1984, catalogo della mostra al Palazzo Liceo Saracco di Acqui Terme, 1984. 13. Le citazioni si leggono in L. Lazzari (a cura di), Raffaello Locatelli 1915-1984, Bergamo 1985; inoltre, Raffaello Locatelli, testo di A. Coccia, Cartelle del Ponte Rosso, Milano 1970. 14. P. Fossati, in “Amate sponde”. Pittura di paesaggio in Italia dal 1910 al 1984, cit. 15. La citazione si legge in R. De Grada, Orfeo Locatelli, Grafica & Arte, Bergamo 1991. 16. A. Possenti, Stefano Locatelli, cit.