Turcato
Turcato. A perdita d’occhio, in Giulio Turcato, catalogo, Galleria Civica, Modena e Musei Civici, Mantova, 28 febbraio – 3 maggio 1998
“… La poesia non racconta niente, e la pittura è come la poesia, una cosa così semplice che non occorrono tanti armamentari, tante storie…” (1). Così, in una conversazione del 1983, Turcato ribadiva, con la lucidità disarmante e talora ellittica che gli era consueta, il valore della diversità che separava il suo corso, definitivamente ormai, anche da quelle che le cronache s’ostinavano a segnare come le vie maestre dell’astrazione. Antiteoricismo, antiintellettualismo, ametodicità, renitenza anche nei confronti della necessità estetica, nella quale pure in altri anni egli aveva scelto di confidare.
Peintre poète in una compagine orgogliosa, talora corporativamente orgogliosa, di peindre en philosophe, Turcato avverte soprattutto negli anni Sessanta, ormai essendo alle spalle la fase acuta delle polemiche nostrane, che il momento è venuto non di stringere uno stile, di iterare una formula peraltro nobile e credibile di non oggettività, ma di chiedersi infine quale spettro espressivo sia attingibile a partire dal linguaggio astratto, ormai in sé non problematico: come dire, la questione non è dipingere astratto, ma cosa dipingere, chiedendosene senza sosta il perché. Da sempre, d’altronde, il nitore del suo engagement non ha sentito il bisogno d’abbigliarsi di ortodossie formali, ed è stato quanto di più lontano dal calvinismo nordico di rito milanese abbia agito nella vicenda nostrana. Ora, quella sua congenita vena di straniamento surreale, e di dissovente ironia dada (vena che troppo spesso un’aneddotica strapaesana ha voluto ridurre a teatrino caratteriale) trova le condizioni di un’effusione radiante, libera, definitivamente libera, dalle moratorie imposte dalle militanze barricadiere del decennio precedente e dalle troppe jattanze ideologiche in circolazione.
“De plus en plus je m’éloignais de l’esthétique”, testimonia Jean Arp della sua più fervida stagione (2), e così potrebbe dire il Turcato di questo tempo. Non tanto per le Macchinette e le divagazioni oggettuali – i tranquillanti, la carta moneta, la carta carbone, eccetera – di certe sperimentazioni, pur in molte occasioni sorprendenti, la cui vis polemica verso le nuove mode cinetiche e neodada rimane troppo allo scoperto (riscattandosi, tuttavia, in taluni picchi nei quali l’istinto pittorico ineludibile si fa invenzione folgorante: penso a un grande Ricordo di New York, 1963, in cui la banda di carta carbone si fa tonica di una stesura di cobalto che si rastrema in cupa materia irritata …); quanto per la svolta, decisiva, rivelata dalla mostra fondamentale del 1965 alla Marlborough, Roma. Il trittico Porta d’Egitto e, ancor più, Pronunciamento, che non si deve esitare a indicare come uno dei capolavori assoluti del dopoguerra europeo, sono i segnali inequivocabili del dunque lungamente carezzato, contaminato, eccitato, teatralizzato, erotizzato, sdrucito, fra Turcato e il colore: che già aveva fatto dire al suo più congruo compagno di via, Emilio Villa, di “oracoli della solitudine, stigmate e brandelli di emblemi genitivi, musica sostenuta di invenzioni attonite e inventiva di una pronuncia minimale del delirio”, e di “misteriosa evocazione (misteriosissimo il colore che la incarna)” (3).
Pronunciamento ha una economia strutturale dimessa, all’apparenza ai limiti dell’ovvio. Una banda orizzontale bassa a far da appoggio all’occhio e insieme da ton moyen, delle quinte laterali, movenze architettanti che solcano, senza suggerire spazio plastico, la grande stesura blu. Come un bozzetto di scena veneziano o d’un magico russo d’inizio secolo, in uno spazio che così, par miracle, si bilancia senza tensione, in voluttuoso equilibrio precario. Non proiezione non tarsia, l’immagine è una sorta di apparizione meravigliata del colore, che abita questa dimensione non occupandola, e tanto meno organizzandola, ma come cantandola, in metriche e cadenze a un tempo sensuose e nitide.
E’ colore liso dalla stesura sino a demateriarsi, a farsi alito e sedimento sensitivo minimo. Il blu cresce su aromi cromatici diversi, impuro, ricco, come germinante da una fisiologia autre che non è materia ma nuda sensazione; pelle carezzata da un occhio nella sua fascinante corporeità e subito assunta in voluttà tutta emotiva. La ritmica larga del verde – un verde dominato dal giallo, che lo intona e insieme ne è temperato – e la nervatura lunga del rosa, dei rosa che si rialzano bonnardianamente sull’arancio (4), e marcano anche i glifemi brevi che accentuano il blu, spingono la temperatura di lettura verso un carattere del blu – ed elemento di connessione tonale sono quegli stretti ma tesi montanti di grigio azzurrato -fatta, è quasi d’obbligo citare, di luxe, calme et volupté.
Certo, già altrove, e in altri anni, Turcato aveva dato prove sostanziose della sua predilezione per stesure sprezzate, svuotate di materia al limite della contraddizione sensoriale, e per collisioni tonali dolci e fluttuanti. Ora, tuttavia, tali valori non sono caratteri del quadro: sono il quadro. Scriverà Villa: “Qui il colore, strumento emotivo, vigilia e vigilanza dell’essere senza pathos, emulazione dell’energia superna, cerca di veder luce nelle dimore segrete, appartate, del rischio e dell’ambiguo: riviere che si spezzano e si riannodano, che recingono ombre di tempi vaganti, di spazi morti, l’ostinazione protratta fino alla indeterminazione, l’incredibilità lunga e densa di squarci assonnati, audaci compattezze, forze di gravità temperate e stemperate nel gioco sensorio, in bilico tra immagine esterna e un vacuum intimo, umbratile”. E, di rimando, Achille Bonito Oliva: “Perché Turcato non pensa all’arte come ad un territorio di conquista ma come un luogo di transito e di mobilità, che crea a sua volta altra mobilità. (…) Dove c’è mobilità non può esserci conquista, proprietà e fissità dunque. Nell’opera di Turcato esiste una nozione molto più moderna che è quella di un mobile possesso, di un uso non violento della pittura. (…) Non è possibile altro destino per l’artista contemporaneo, portato ad una mobilità irrefrenabile, vissuta senza angoscia, in quanto condizione naturale e sana per ogni pratica artistica. Turcato smaterializza la materia della pittura, per meglio poter adempiere a tale movimento” (5).
Meno genialmente sintetico, ma altrettanto qualitativamente alto, è il trittico Porta d’Egitto. Figlio dell’adozione della banda laterale come innesco tonale, già sperimentata alla fine dei Cinquanta, e delle prime intuizioni della serie Fuori dallo spettro, in cui Turcato s’immagina un trascorrimento dalla scala cromatica per via non ottica, ma di deriva affettiva nel sentimento del colore – sentimento in cui oscuramente s’incrociano umori simbolici, d’introversa corporalità, e di un’emblematica straniata (6) – il trittico fa centro su una vasta campitura di ocra segnato da un ambiguo e sottile tracciato grafico, che afferma e a un tempo smentisce un primo piano ottico, le cui temperature si riverberano – per sottilissimi rimandi di tono, come in una tramatura di temperature più ancora che di colori – sulla dominante violetta e su quella del rosso verso rosa dei laterali. Il pascolo dell’occhio restituisce una omogenea, compiuta, unitaria sensazione cromatica, un colore introverso tutto all’anima del riguardante: Porta è il dipinto, in quanto soglia non percettiva e neppure della natura della finestra sklovskijana: bensì momento/limite di un avvertirsi, avverandosi, del colore, che si metabolizza in avvertimento complesso, oscuro e meravigliato, dell’esperienza estetica del riguardante.
Vengono a maturazione, quasi in pari tempo, le gommepiume, esposte per la prima volta organicamente alla Biennale del 1966, che a dispetto della perfetta congruenza ai ricercari dell’artista, d’un colore che sia non materia o pellicola, ma lieve disinvolta sostanza, e identità emotiva, vengono lette – il clima del tempo, d’altronde, è tale – prevalentemente sul metro del loro tasso di atipicità tecnica, quella stessa che, anni dopo, farà dire pur affettuosamente a Francesco Arcangeli, di Turcato, come d’un “geniale fumiste” (7). Titolate sovente Cosmico o Superficie lunare, e affrontate con frequenza irregolare sino alla fine del decennio Settanta (si pensi al bel trittico Superficie lunare in giallo, blu, rosso, realizzato nel 1979), esse sono per Turcato principalmente un modo. Modo, ovvero, condizione di trascendere l’apparato tecnico stesso della pittura, del dipingere, in favore di una condizione in cui al colore sia dato di avvenire, di comportarsi, di trovare la propria densità superficiale e le proprie irritazioni, la propria libera dimensione, in virtù d’una vicenda tecnica le cui alee impediscono di fatto all’artista il controllo del fare, la padronanza. Si consideri, tra l’altro, che queste pitture si allineano nel tempo in cui si dice, e spesso farnetica, di fundamental painting, pittura analitica, fare pittura e consimili: ove proprio il fare, l’attualità snudata del dipingere, viene considerato antidoto (ma quanto disperato) alle “scorie espressive” che impedirebbero alla pittura d’attingere ad algide, ancorché autoreferenti, verità.
Altre prove, tuttavia, nel decennio Settanta si intrecciano al corso d’esperienza delle gommepiume. Anno cruciale, al pari del 1965, vi è il 1972. Alla Biennale veneziana, ecco le Oceaniche; nella personale alla Editalia di Roma, ecco dipinti come Il tunnel e La passeggiata. Le Oceaniche sono tentazioni di shaped canvas in foggia di scudi tribali. Al di là della sagomatura fisica, assai poco significativa in verità nonostante i facili entusiasmi di certa critica coeva (per la quale la “fuoriuscita dal quadro” era programma indefesso e parola d’ordine, era la vera questione: non, evidentemente, il dove andare una volta fuoriusciti: per non dire del perché), vi è notevole l’intento di Turcato di far nuovamente i conti con l’idea di forma strutturata, esplicitamente assertiva e a più evidente connotazione decorativa. Campiture magre e corsive, accentuazioni timbriche, controcanti sottili fatti di brividi aggrumati di segno, sottraggono – tentano di sottrarre – alla sagoma la primazia forte del vedere: pur senza, va detto, giungere a un grado differente di risoluzione espressiva. Altre opere dal medesimo titolo si allineeranno nella pratica di Turcato ancora per tutti gli anni Ottanta, affiancate da versioni, parimenti svolte sulla shape colorata, delle Libertà, nate a ridosso delle Oceaniche.
Un affine esperimento di spingere l’epifania colorata verso il confine arduo dell’iperdeterminazione percettiva è negli altri dipinti, la matisseria (8) di La passeggiata e lo scambio forte e fastoso, timbrico/tonale, de Il tunnel: scambio che avviene non solo sul metro di rapporti cromatici alti, omologati dal grigio medio (la zonatura ovale del quale fa da premessa a numerose opere svolte sull’ovale inscritto nel rettangolo), ma anche e soprattutto tra stesure piene e stesure mosse e corsive, e determinare impatti e involvimenti di lettura diversi.
Tuttavia, nonostante l’empito profuso e l’ufficializzazione riservata da Turcato a queste opere, esse non rappresentano, in questo momento, il filone primario d’attenzione. Certo, Turcato vi dispiega una facoltatività tecnica e modale notevole, e un’attenzione alla situazione di lettura dell’opera che, sottratta ai percettivismi in voga, appare del tutto atipica nel panorama del tempo: il suo stesso nominare termini come forma e formalismo, echeggianti antiche battaglie culturali, implica – ne è testimone chiunque abbia avuto con lui conversazioni – soprattutto il valore della crucialità della ricezione dello spettatore, e della situazione emotiva che se ne determina. Laico, laicissimo, non riconosce alcuna sacralità alla pittura, e si sottrae a qualsivoglia liturgia. Quando egli adotta soluzioni disciplinarmente anomale, non si pone il problema della pittura, del codice artistico, ma dell’in sé dell’opera, e della sua vita mondana nella sfera cangiante dell’esperienza dello spettatore. Così, parimenti, Turcato può saggiare invenzioni plastiche con curiosità giocosa, dalla Finestra, 1973, al Sarcofago, 1974, e seguire insieme la via maestra dell’identità del colore.
Le serie operative, da inizio decennio, si infittiscono, incrociandosi con larghi margini di sovrapposizione. Nuove Superfici lunari, ulteriori Oltre lo spettro, si affiancano ai Desertici, ai Fantomatici, alle Orme, ai Segnici, ai Gotici, ai Monocromi dalle titolazioni legate al protagonismo del colore, In rosso, In blu, In giallo … Sono vere e proprie serie, come un unico lungo attraversamento d’una condizione operativa ed espressiva che, in Turcato, non ha un prima e un dopo (la scelta di non datare mai le proprie opere non è in lui un vezzo, è la concezione precisa di un corso artistico che non si dia tentazioni evolutive), ma si abbandona a una sorta di deriva veloce e leggera, collidente con quella delle altre serie parallele in un gioco di sorvegliatissimi possibili. Esse richiamano alla mente le parole di Michel Butor a proposito di Picasso: “La nozione di un’opera come gruppo di opere, di una tela come implicazione di altre tele intorno a essa, è diventata così fondamentale per l’artista che perfino un quadro isolato diventa un caso particolare d’insieme” (9). Si affermano o riaffermano, in questi lavori, alcuni accorgimenti tecnici e alcune modalità operative che resteranno, da ora, costanti: il rialzo della consistenza della pellicola pittorica con sabbie e polveri, l’impiego di paillettes e di polveri fluorescenti e fosforescenti, l’accentuazione sempre più marcata e libera di una grafia di tipo automatico: quasi che il primitivo penchant surrealista di Turcato, da sempre utilizzato da Villa come chiave primaria di lettura, si precisi, per vie affatto differenti da quelle delle congiunture artistiche coeve, e si rideclini in definitiva condizione espressiva.
Circoscritta nel tempo, la serie dei Segnici – le cui avvisaglie si avvertono nel compatto gruppo di dipinti Itinerario, 1970, e il cui esito più cospicuo, quasi per destino, è un nuovo trittico Porta d’Egitto, 1973 – fa per certi versi da premessa ai grafemi che si insedieranno stabilmente nelle pitture successive. L’impiego della matita copiativa a solcare la pasta pittorica raggiunge forse l’estremo di corsività imparentata d’automatico che Turcato si consenta. E’curioso osservare come queste prove (precedute, sia consentita la citazione a memoria, da fitte serie di disegni rimontanti almeno agli anni Sessanta) richiamino, sia pure per assonanze assai larghe, più ancora che l’estro nuovo di Twombly e quello esuberante di Novelli, con i quali pure ha intrattenuto rapporti personali non di circostanza, certe serie di Fontana – gli inchiostri in testa – come era avvenuto, più d’un decennio avanti, per le pelli: a dire in entrambi, scontate le fondamentali differenze, dell’intensità del pensiero intorno al valore di segno e di superficie fuori dalle retoriche stilistiche prevalenti. L’artista pare avvertirvi, tuttavia, l’ineludibilità della contraddizione, del differenziale, che il segno innesca rispetto al valore di campo cromatico. Se segno deve essere, in quanto movenza e dynamis del farsi immagine del colore, non può essere che scintilla, scarica elettrica, crampo nervoso, del colore stesso: com’è peraltro già nei rari Desertico, riprese fervide di strepitose prove passate come Le cavallette, La bava, Astronomica, dello scorcio dei Cinquanta, e come si precisa ancor meglio nelle Orme.
Vera e propria incubazione dei Cangianti e degli Ipnotici che contrassegneranno, con prove sovente straordinarie, il decennio Ottanta, le Orme scommettono sulla cromia perigliosa del bianco, la cui stesura uniforme di base si irrita di movenze disorientate di materia sabbiosa, di grumi zonati di colle e polveri fluorescenti. L’immagine che vi cresce è, dunque, nudo comportamento del colore, metamorfosi teoricamente illimitata di stato: alla soglia di una fisicità precisa e avvertita, ma importante in sé solo in quanto innesco di una diversa e mobile fluenza sensoriale, tutta interna (dalla variabilità di lettura a quella d’auscultazione) all’animo del riguardante. Il senso di testura larga dell’immagine non può non richiamare gli andamenti di molti dipinti degli anni Cinquanta (valga un esempio: Deserto dei Tartari, 1956); ma ora, questa l’intuizione fondamentale, non si tratta più di un comporre, per quanto fluido e ametodico, bensì di un vero e proprio formarsi dell’immagine nel colore, del colore; formarsi del quale il quadro, ogni quadro di una seriazione che si fa, né sarebbe diversamente pensabile, fittissima, scrive gli aliti – a loro volta non fissabili – di un momento/pausa.
Nella seconda metà decennio, forse, il portato di tali risultanze non appare a tutti nella pienezza della sua portata. Complice ne è, oltre alla curiosità suscitata dalle divagazioni in territorio oggettuale di Turcato e alla difficoltà costante d’intuire i radicali di un corso d’opera così fastosamente variabile, la riscoperta piena di cui il suo lavoro tutto è oggetto: inaugurata dalla grande monografia curata da Giorgio De Marchis, e proseguita con l’ antologica al Palazzo delle Esposizioni a Roma, essa si inoltrerà negli Ottanta con mostre come quelle all’Athenée di Ginevra, alla Loggetta Lombardesca di Ravenna, al Padiglione d’arte contemporanea di Milano (10). Per anni, nell’ansia di definire i termini ordinati di un’area astratta italiana, la figura di Turcato era stata largamente sottostimata, mancando di fatto i termini critici per intenderne la diversità fondamentale, e anche a causa della riottosità dell’artista verso il bon ton professionale che allora si considerava virtù non eludibile. Ora, nei Settanta, si procedeva finalmente al risarcimento, e la restituzione delle glorie passate metteva inevitabilmente in ombra, come quasi sempre accade in questi casi, il fatto che Turcato fosse tutt’altro che il reduce stanco di nobili battaglie, e si aggirasse nomade felice in cieli fantastici intravisti prima di lui, nei decenni ultimi, dal solo Licini. Le glorie passate erano finalmente riconosciute: la diversità fondamentale, quella, restava intatta, non scalfibile.
Due terne di dipinti, Monocromo in blu, in rosso, in giallo, e Superficie lunare in giallo, in blu, in rosso, datanti tutti al 1979 ed esposti rispettivamente nella personale da Sprovieri, Roma, 1980, e al Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 1984 – questi ultimi a fianco di un altro baluginante trittico, Proposizione luminescente gialla, blu, rossa – possono essere assunti a termini di apertura della stagione ultima di Turcato, dominata, come s’è accennato, dalle serie Ipnotico e Cangiante. Attorno alla terna classica dei primari, Turcato organizza avventure cromatiche ai limiti della cecità (in un appunto di quegli anni, mi era accaduto di scrivere: “Giulio non vede più, introversa la retina” ) dove il colore si dà come per intime movenze di danza, muta di umore, di carattere, di comportamento: impuro, continuamente ansimante di una sua vita interna, affiorante a una superficie che non ha bordi e dimensioni, mera convenzione tra quel colore e il tuo colore, che sposta le sue tempeste e le sue grazie entro l’animo del riguardante. Segnato da tracce bave dilucoli che sono ora irritazioni, ora dissolvenze, ora filamenti energetici, ora riverberi, ora affondamenti: come contagi, esalazioni, arpeggi di note senza suono: forse.
E’ questa “la medusea proprietà del Colore” di cui dice Villa nel testo forse più alto dedicato all’amico: la cui operazione è come inseguimento e “ricerca di esenzione dalla dialettica tempo-storia, e indagine del Colore esistente in sé e per se stesso, propiziato o postulato da ludica insorgenza; e Colore increato, non mimato, base della inalterabilità e immutabilità dell’unum, sensibile come dono e come rimedio, ad percipiendam medelam; e non già come Disturbo di Fondo, disposto-opposto, inserto-conserto, e deserto infine, ma proprio come soggiorno-oracolo, quasi ricondotto, o da ricondurre nell’ordine della sollecita intenzione senza corpo (senza né vita né morte), nella spettacolata o segreta indifferenza dell’extensa melancholia (senza reverenze alchemiche, ma di schietto svincolo) esentata da figure espresse o da ombre parallele, spoglia di referenze all’orrore del reale, e tuttavia colma di precipizi (come a presentarsi incessantemente sopra l’Abisso, in una richiesta a perdifiato, a perdita d’occhio) …” (11).
La via definitivamente intrapresa da Turcato è quella della saturazione. La sua non è la monocromia del less, ma l’identità assoluta del colore, che sa la propria plenitudine in ognuno dei momenti innumeri del suo esistere facendosi, generandosi in immagine. Ed è una identità che trascorre di colore in colore, di visione in visione, come fosse esperienza continua di un unico grande opus dalle infinite epifanie. A tale intuizione corrisponde anche l’uso di Turcato, anacronistico, perfettamente inattuale in tempi di rarefazioni e arguzie d’allestimento, di pensare le pareti espositive come pagine unitarie, a loro volta sature e cangianti d’accidenti cromatici: ciò è ben evidente nella sala alla Biennale veneziana del 1982, nell’antologica a Villa Stuck a Monaco, 1985, e in certe sezioni di quella del 1986 alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.
Alcune opere svettano tuttavia, per qualità rara, in questi anni. Penso ai due Ipnotico dai toni tenuissimi della Biennale 1982, al trittico Proposizione luminescente e ai due Emblematico esposti al Padiglione d’arte contemporanea, 1984, alle tarsie del dittico Conseguente, 1986 – blu/rosa, ancora, con giallo e arancio… – e a quelle baluginanti di Dissimile, 1988, dalle semplicità straordinarie, dalla complessità vertiginosa, dipinto cruciale nelle personali da Sperone, Roma e New York, tra 1988 e 1989. Turcato prosegue così, sino alla fine, sino alla consunzione delle forze fisiche, non di quelle espressive. A perdita d’occhio.
Note. 1. F. Gualdoni, Monologo. Da una conversazione con Giulio Turcato, in “Conversari” 1983, Studio Dossi, Bergamo 1983. Altre interviste notevoli dell’artista sono A. Bonito Oliva, Intuizione, … oltre lo spettro, Emilio Mazzoli, Modena 1981, F. Gualdoni, Conversazione con Turcato, in Turcato, Essegi, Ravenna 1982, e G. Appella, Colloquio con Turcato, Edizioni della Cometa, Roma 1983, oltre al classico C. Lonzi, Autoritratto, De Donato, Bari 1969: notevoli soprattutto per la capacità dell’artista di sottrarsi alle retoriche dell’autorappresentazione, agendo senza infingimenti da “omo senza lettere”. 2. J. Arp, Jours effeuillés, Gallimard, Paris 1966. Si tratta di tangenza – benché con il valore che ogni tangenza ha nel mobile e non sistematico corso dell’artista – non casuale: si può suggerire una derivazione aperta da taluni modi arpiani in certi filoni del lavoro di Turcato, segnatamente laddove egli lascia emergere senza remore la fascinazione delle tarsie di ascendenza organica: ad esempio in opere come Apparizione, 1966, e più tardi come le Libertà, 1974, o Asteroidi, 1983. Quanto alle occasioni che segnano la larga circolazione nostrana di Arp, non vanno dimenticate le personali di Arp alla Biennale veneziana, nel 1954 con il Gran premio per la scultura, e nel 1958, Padiglione Svizzero, e alla galleria Odyssia di Roma, 1961, oltre a una pubblicistica culminante con la monografia G. Marchiori, Arp. Cinquante ans d’activité, Bruno Alfieri, Milano 1964. 3. E. Villa, Giulio Turcato, catalogo centro d’arte La Barcaccia, Montecatini Terme, 1969. 4. E’ argomento definitivamente esplorato il peso della lezione matissiana sul versante meno rigorista della compagine non oggettiva nostrana, Turcato, e per altri versi Carla Accardi, in testa. Forse meno nitida è la percezione del modello di Bonnard: pittorico, per una delle stagioni più alte della pittura di Piero Dorazio, e per molti giovani dall’intonazione lirica (un Claudio Olivieri, un Valentino Vago, ad esempio), convinti tra l’altro dalla grande mostra milanese del 1955 alla Permanente; esempio – come sempre obliquo – di una struggente ma distillata erotica del colore in artisti come Turcato. 5. E. Villa, cit.; A. Bonito Oliva, Giulio Turcato. La pittura come azione interiore, catalogo galleria Sprovieri, Roma, 1980. Di una femminilità del colore, come rapporto di sensuosa confidenza emotiva spinta sino all’identificazione, quindi di una fondativa priorità del pensare colore affettivamente rispetto all’atto pittorico determinato, mi è accaduto di dire in più occasioni. 6. Poco valutato è stato, in questa chiave, il peso dello spettacolo Moduli in viola / Omaggio a Kandinsky messo in scena nel 1984 al Teatro Goldoni di Venezia in occasione della Biennale, con regia di Vana Caruso, musica di Luciano Berio, e scene, luci e costumi di Turcato (catalogo di Aa.Vv., Centro Di, Firenze): esso è fondamentale non solo per il tentativo di far essere una pura situazione cromatica nello spazio condizionato della scena e attraverso l’agire corporeo, ma anche e soprattutto per l’esplicitazione del rimuginare dell’artista sulla nozione stessa kandinskyana di colore. 7. N. Ponente, Giulio Turcato, in XXXIII Biennale di Venezia, catalogo, Venezia, 1966, dà peraltro delle gommepiume una lettura in chiave tutta pittorica. Cfr. inoltre F. Arcangeli, Dall’opera al comportamento, in XXXVI Biennale Internazionale d’Arte, catalogo, Venezia, 1972 (ripubblicato in Dal Romanticismo all’Informale, II, Einaudi, Torino 1977). 8. Il termine è citazione di una serie di dipinti di Giorgio Griffa (cfr. F. Gualdoni, Giorgio Griffa. “Matisseria” e altri lavori, in Giorgio Griffa, catalogo galleria Martano, Torino, 1982) dedicati a una arguta riflessione sulla componente decorativa della pittura di Matisse. 9. M. Butor, La successione delle immagini, in Saggi sulla pittura, SE, Milano 1990. 10. G. De Marchis, Turcato, Prearo, Milano 1971; G. Dalla Chiesa – I. Mussa (a cura), Giulio Turcato, catalogo Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1974; I. Mussa (a cura), Giulio Turcato, catalogo Musée de l’Athenée, Ginevra, 1980; F. Gualdoni, Turcato, cit.; Giulio Turcato, testo di E. Villa, catalogo Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 1984. 11. E. Villa, in catalogo Padiglione d’arte contemporanea, cit.