Milano 1950 – 1959. Il rinnovamento della pittura in Italia (seconda parte)
Milano 1950 – 1959. Il rinnovamento della pittura in Italia, catalogo, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1997, seconda parte
5. Nel 1950 si tengono, a un conteggio approssimativo, oltre duecento mostre. Nelle gallerie, e in luoghi che vanno dalla pasticceria Campari alla Camera del Lavoro, dalla libreria Einaudi a una sezione del P.S.I. E’ come se, dopo i primi sforzi immani del dopoguerra immediato, venissero ora finalmente a maturazione, tutti contemporaneamente, umori culturali troppo a lungo compressi, allo stesso tempo ipernutriti dall’accelerata ansia di aggiornamento internazionale. La memoria leggendaria del tempo ama ricordare la precocissima personale di Pollock al Naviglio: la stessa galleria chiuderà idealmente il decennio con un’altra mostra parimenti “troppo” tempestiva, di Jasper Johns. Ma in questo momento il pupillo della neoitaliana Peggy Guggenheim (nel 1951 il Naviglio presenterà anche una personale di Pegeen) cade come presenza indecifrabile in un dibattito artistico in cui altri conti, ancora, vanno regolati.

Morlotti, L'Adda, 1956
Le figure dominanti, per carisma diretto o indiretto, non possono che essere le migliori dei decenni precedenti: Carrà, cui il premio alla Biennale veneziana a fianco di Matisse conferisce l’ultima consacrazione, e poi i Tosi, i De Pisis, i Morandi, i Sironi, i Campigli, i Semeghini… Fontana è già considerato un maestro, ma l’appartato sperimentalismo del suo lavoro, e la sua proiezione verso le generazioni più giovani, ne fanno una sorta di figura duplice, e comunque vissuta ambiguamente dalla cultura ufficiale. Sono le loro mostre le dominatrici della scena artistica. Tuttavia, quelle di cui maggiormente si discute, sino alla polemica brusca, sono altre. Il recupero delle avanguardie storiche, innanzitutto: il Milione allinea in una collettiva Arp, Archipenko, Balla, Boccioni, Braque, Chagall, De Chirico, Ernst, Kandinskij, Klee, Léger (è presenza frequente e notevole, quella di Léger, nella Milano d’inizio Cinquanta, con un peso non inferiore a quello di Picasso), Mirò, Morandi, Picasso, Severini, Sironi; il Naviglio presenta Braque, Metzinger, Hayden, Rivera, Severini, Paresce, Soffici, Rosai, Valmier, Survage, Léger; Barbaroux affianca agli storici italiani Derain, Picasso, Utrillo. Astrattismo, futurismo, cubismo: attorno alla valenza del recupero dei tre grandi movimenti storici si articola il cuore della riflessione sul nuovo. Il fronte concretista, forte delle attività organizzate del M.A.C., della libreria-galleria Salto, e di presenze non occasionali da Bompiani, al San Fedele, da Bergamini, al Naviglio (dove “Pitture concrete e astratte” compagina Monnet, Munari, Reggiani, Soldati, Veronesi, Dova, Fontana, Vedova, Bertini) oltre che del più naturale e omogeneo rapporto con la vitale cultura architettonica – da Sottsass jr. a Perogalli – è il più compatto, e il più organizzato: e vicende come la rivista “AZ” di Ballocco aprono una finestra importante con la nuova cultura romana dei Burri, Capogrossi, Colla.
Discorsi sul futurismo se ne fanno già, anche se la remora storico-politica (equanime, Borgese liquida tutto: “pittoricamente l’arte di Kandinskij non regge”; “grazie anche al futurismo, l’Italia ebbe dunque dittatura, fascismo, guerre, distruzioni, disfatte, vergogne. I migliori futuristi, essendo dei provinciali di scarsa cultura, hanno una responsabilità limitata”: “Corriere della Sera”, 21 settembre) impone cautele anche alla critica più aperta, da Carrieri a Ballo: ma già è significativo ritrovare stabilmente Balla e Boccioni tra le figure moderne di riferimento, ed è bello leggere proprio di Ballo, in “Avanti!” del 26 gennaio successivo, un’acuta comparazione di lettura tra Forme uniche nella continuità dello spazio di Boccioni e la Nike di Samotracia, bersaglio polemico della letteratura futurista. Sul cubismo la questione è più sfumata, trattandosi di una figura storica di più complessa percezione, a quel tempo: il cubismo storico compresso sul carisma vivente del Picasso “politico” di Guernica, in una assimilazione che guarda soprattutto alle esperienze degli anni Trenta e oltre del grande spagnolo, come di Braque e di Léger: ha scritto Cruciani presentando nel 1949 la “Mostra di pittura italiana moderna” alla galleria di Pittura: “il cubismo, la cui importanza risiede, come quella di tutte le effettive scuole, in una scoperta plastica di tale necessità ideologico-storica, alla quale nessun cosciente artista, sia accettandola, sia attivamente reagendovi, può oggi sottrarsi”.

Munari, Proiezione a luce polarizzata, 1955
Né va dimenticato che le posizioni astratto-concrete che maturano intorno a Venturi, incarnate tra gli altri da personaggi come Birolli e Morlotti, dicono d’un equilibrio tentato tra forma autonoma e persistenza del dato referenziale, echeggiante certo proprio quei precedenti storici, che è d’una vasta area ancora in via di definizione, e che proprio l’intendimento diverso della “necessità ideologico-storica” farà dissolvere: pertinentemente la galleria del Milione, che di questa opzione è l’assertrice più problematicamente coinvolta, allinea anche personali di Afro, di Corpora e di Moreni. Agli Amici della Francia la mostra italo-francese mette insieme Birolli, Bordoni, Cassinari, Morlotti, Estève, Gischia, Lapicque, Pignon; giovani come Dova, Crippa, Peverelli e Donati si muovono tra proclami spaziali e pitture di forte caratura geometrica, fra tentazioni concretiste e fascinazioni cubiste. Notevole, è la responsabilità di quest’area di ricerca: proseguire nell’attitudine engagée, eticamente risoluta e politicamente esplicita, ma contemperandola con una non meno avvertita adesione alla modernità, rifiutando l’appiattimento sul realismo di marca sociale che pure, in questo momento, celebra i suoi sforzi più accaniti. I “Diciotto pittori” che si presentano in gennaio da Bergamini – galleria per anni dalle duplici attenzioni, aperta sia ai realisti sia ai concretisti, da Guttuso a Munari – sono Pizzinato, Tettamanti, Mucchi, Treccani, Genni, Vespignani, Guttuso, Motti, Zigaina, Migneco e altri: ovvero, la compagine dei realisti più intransigenti. Essi godono di consistenti poggiature critiche, De Micheli e De Grada in testa. Tuttavia negli anni, nonostante possano contare su strumenti editoriali forti (“Unità”, “Realismo”, “Vie nuove”, “Rinascita”, …: la traduzione del Realismo di Courbet che esce nel 1954 è di Treccani), su una galleria di primo piano come la Colonna, e su una relativa penetrazione presso le generazioni più giovani – valga un esempio: alle Olimpiadi nazionali del 1950 due studenti della Brera diretta da Carpi, Giancarlo Sangregorio e Giansisto Gasparini, vincono i primi premi di scultura e pittura, e al realismo con venature picassiane fanno inizialmente riferimento – non riescono a travalicare i limiti del ghetto politico nel quale hanno rinchiuso se stessi, e che proprio la damnatio partitica della sinistra culturale più aperta serve a rafforzare. Resta la militanza politica delusa, disincantata, degli astrattisti e concretisti, e quella più problematica e sofferta dell’area che, grosso modo, finirà per dirsi astratto-concreta.
6. 1951. Hélion e Klee al Milione; Kandinskij, Matisse, Picasso e Mirò al Naviglio. Prosegue, a fianco della storicizzazione delle figure grandi del Novecento italiano, il lavoro minuzioso di recupero di una internazionalità culturale che, assai più di quanto possa ora sembrare, è fenomeno condiviso non solo nella cerchia della cultura d’avanguardia: con una predilezione per il polo parigino che appare da mille segni, e alla quale si omogeneizzano i rapporti che s’intrecciano con altri centri, Roma in testa. La polemica sul realismo di marca sociale riguarda primariamente le posizioni politiche, incidendo solo marginalmente nel dibattito artistico: nel quale, invece, sempre più forte si fa la divaricazione tra una ufficialità colta che si identifica nel classico-moderno italiano, e da esso presume di poter dedurre conseguenze di figurazione postnovecentesca (leggibile soprattutto nei programmi di gallerie come Gian Ferrari e Barbaroux, e che caratterizzerà, più avanti, l’attività della Permanente), e una più progressiva, che non rinnega quei precedenti, ma ne fa l’humus d’una ricerca sul nuovo della quale il M.A.C. – che celebra un’altra importante uscita collettiva da Bompiani, collegata alla mostra sui “Primi astrattisti italiani 1913-1940” con Balla, Depero, Fillia, Fontana, Reggiani, Radice, Badiali, Severini, Magnelli e Prampolini – e l’arte spaziale che va rafforzandosi intorno al patronage di Fontana (Deluigi, Nando, Tancredi al Naviglio; Dova, Peverelli al Milione) sono i momenti esemplari, oltre che qualitativamente plausibili. Di tale fisionomia è documento eloquente la partecipazione artistica alla Triennale, scalata tra novecentismo di qualità, concretismo garantito da precedenti d’astrazione storica e “giovani leoni” spaziali.

Manzoni, Linea, 1959 c., frammento
E’ inevitabile che il consolidarsi di un effettivo ambito di avanguardia, meno marginale di quanto fosse in origine (nonostante rappresenti una quota assai minoritaria, in termini di riconoscimento mondano, l’ambito concretista e spaziale può, a questo punto, dirsi il vero ambito innovativo, credibilmente alternativo sia al gusto postottocentesco quantitativamente dominante, sia al realismo sociale: e dotato d’un suo apparato istituzionale di qualche peso: gallerie, critici, collezionisti, …), prenda a generare anche i propri interni anticorpi, i propri estremismi divergenti. Quando, nel 1951, Baj e Dangelo tengono al San Fedele la mostra “Pittura nucleare”, dal punto di vista del linguaggio nulla di veramente dirompente propongono, essendone le opere, a ben vedere, varianti inscrittibili in un ambito che già certe punte della ricerca spazialista attente all’ancor non ben inteso precedente surrealista – per non dire del lavoro geniale di Fontana – stanno esplorando. Quando, l’anno successivo, la loro attività si fa frenetica, con manifesti, mostre, pubblicazioni, happenings, eccetera, essa fa irrompere nel quadro artistico milanese, per la prima volta con tale aggressività, i veri e propri comportamenti dell’avanguardia, la lezione futurista e surrealista del movimentismo artistico, il cupio dissolvi dada, l’automitologia, la negazione dell’altro, cui sino ad allora si era preferito piuttosto un modello razionale e organico d’avanguardia: quello ispirato a Bauhaus e Abstraction-Création, per intenderci: fideismo, volontarismo, progetto d’utilità, etica, spirito di conoscenza.

Scanavino, Sindone, 1957
Nel 1952 le mostre nucleari agli Amici della Francia, ma, più, la mostra degli spaziali al Naviglio, cui fa da corollario la collettiva, peraltro di minimo successo, ancora agli Amici della Francia, con Ernst, Duchamp, Lam, Brauner, Magritte, Seligman, Matta, Deluigi, Crippa, Aldrovandi, Fontana, Gian Carozzi, Donati, Peverelli, Joppolo, Dova, segnalano un’accelerazione brusca del quadro della ricerca d’avanguardia. Mentre sempre più il versante concretista si orienta verso una sintesi totale delle arti con spiccate contaminazioni con design e architettura (del 1955 sarà la fusione con il gruppo Espace, generatrice insieme di ancor più serrati dialoghi con l’architettura, ma anche d’una diaspora di figure vocate alla pura astrazione pittorica), è da questo ambito composito che si prospetta, al di là della qualità momentanea degli esiti, la via d’una neoavanguardia a tutto tondo: eccessiva, talora geniale, talora stucchevole. L’inscrizione del modello dada-surrealista nella costellazione delle poggiature storiche, e il veloce trascolorare insieme delle mode neopicassiane, cadono non casualmente nel momento in cui le divisioni tra eredità dei grandi modelli storici vanno mescolandosi e generando opzioni differenti. Fontana è insieme riconosciuto padre storico dell’astrazione, nume tutelare degli spaziali, e ora fidejussore anche dei nucleari, con i quali espone nel 1953 da Bergamini. Gli stessi nucleari sono ospitati dallo Studio B 24, nato dalla costola più architettonica del M.A.C.; il trio spazialista Crippa, Dova, Peverelli è nello stesso anno al San Fedele in una collettiva con Reggiani, Radice e Bordoni.
Più che l’attitudine strettamente geometrica, ben incarnata dalle figure storiche ma, tra i giovani, a ben vedere proseguita con cospicua originalità dal solo Nigro, in ambito strettamente pittorico, è un’idea meno ortodossa di sperimentazione, di forma e spazio, a maturare: quella di cui Fontana è non solo riferimento morale (“sarebbe un’assurdità affermare che eravamo spazialisti. Lo spazialismo appartiene a Fontana e basta. Non so spiegarlo ma credo che, sia per me che per tutti gli altri, la visione dello spazialismo fosse legata a una sorta di ammirazione e adesione per qualcuno, come Lucio, più vecchio di noi, che sconvolgeva le regole della buona pittura”: così ricorderà Peverelli nel 1972) ma anche operativo, con quel suo agire su un piano effettivamente diverso d’esperienza espressiva.

Fontana, Concetto spaziale. Natura, 1959-1960
Dova dice, in uno scritto del tempo, della attenzione alla “disponibilità della forma figurativa” come elemento fondante del proprio lavoro: che deriva, per lui come per i compagni di via, Crippa in testa, dalla consapevolezza ormai definitiva che lo stesso valore semantico di astrazione e figurazione, filtrato dal vaglio ineludibile della lezione surreale e di quella di Fontana, è ormai in dissolvimento e in via di metamorfosi.
7. Per altre vie, ma anch’esse derivanti da una distillazione finalmente non derivativa del precedente cubista, oltre che del recupero del valore di naturalità in contrapposizione alle intransigenze ideologiche del realismo, si coagula anche la compagine degli artisti che si presentano, nel 1953, al Milione nella mostra “Dodici pittori italiani”: sono Afro, Ajmone, Birolli, Carmassi, Cassinari, Meloni, Moreni, Morlotti, Romiti, Santomaso, Vacchi, Vedova (“Prima di tutto è necessario dire subito che i pittori presenti a questa mostra non sono legati da nessun vincolo di gruppo o di manifesto, bastando, per questo incontro, il loro comune tendere a un’interpretazione del tempo presente che immediatamente chiama in causa anche valori d’ordine assoluto ed essenziale”: così Valsecchi, nella presentazione). Cassinari tiene, nello stesso tempo, una personale all’Annunciata, Morlotti una doppia personale all’Annunciata e al Milione, Meloni una personale al Milione. E’ evidente il risultato dell’azione critica di Venturi a proposito di astratto-concreto (la cui efficacia è più sul piano della riflessione espressiva, che sulla logica avanguardistica del groupement), e insieme il lavoro diretto del critico che funge da ispiratore a molte delle scelte della galleria, Valsecchi, che persegue di suo un cautelato recupero di certi valori del tonalismo lombardo in chiave di naturalismo virato in chiave lirica. Tutto ciò, in perfetto tempismo, accade mentre al Palazzo Reale le 330 opere di Picasso della leggendaria antologica, assai ampliata rispetto alla grande mostra romana di poco prima, non servono solo a celebrare il grande maestro del secolo, ma a mostrarne per la prima volta senza ambigui filtri interpretativi la complessità del lavoro, e la sostanziale non rivendicabilità da parte di alcuna delle piccole fazioni in contesa nostrana.
8. Tra il 1954 e il 1955 è l’attività di due nuove gallerie, Schettini e Schwarz, a nutrire ulteriormente le condizioni del dibattito di punta. Schettini apre alla compagine spaziale e nucleare, assemblando nel 1955, per la mostra dedicata alla rivista “Il Gesto”, in gemellaggio con la parigina “Phases” di Jaguer, Baj, Bertini, Colombo, Dangelo, Dova, Fontana, Milani, Alechinsky, Bryen, Corneille, Ernst, Goetz, Jenkins, Matta, Saura, Schultze e molti altri esponenti d’un informe di forte connotazione tachiste, nel quale lo spettro dei riferimenti va dal surrealismo al carisma nuovo del Cobra nordico. Insieme, tuttavia, mostrando attenzione precoce per artisti giovani come Ferroni e Romagnoni (Ceretti, intanto, esordisce al San Fedele e da Barbaroux), intuisce che va maturando, dalla costola del realismo engagé, una ricerca in cui all’intransigenza politica si va sostituendo il senso del dramma esistenziale che trova i propri numi in artisti come Giacometti e Bacon, oltre che nelle circolanti frequenze della letteratura francese, Beckett e Butor in testa: una collettiva di giovani e giovanissimi alla Cordusio si segnala per alcune intuizioni notevoli in questo ambito, Francesconi, Guerreschi – già precoce vincitore del premio San Fedele nel 1952 –, Della Torre, Vago, Romagnoni, tra gli altri. Schwarz dedica la sua prima stagione, 1954, a una mostra programmatica in cui s’incrociano nuclearisti e Cobra, in nome del Bauhaus Imaginiste promosso da Serbanne e Senne in opposizione ai rigorismi di derivazione bauhausiana che vengono avvertiti come l’ufficialità dominante in seno all’avanguardia, e soprattutto a una serie di personali di figure internazionali, da Duchamp a Alechinsky, da Ernst a Schwitters, che ne dichiarano esplicitamente l’orizzonte di riferimento.

Dadamaino, Volume a moduli sfasati, 1960
Nello stesso tempo prendono a operare altre gallerie, da Spotorno a Sole a Fiore, tra cui alcune destinate a divenire fondamentali, come Ariete e Apollinaire: seppure, in questo momento, con programmi non “di tendenza”, come allora usava dire. Da parte loro le gallerie più accreditate proprio nel far tendenza, Milione e Naviglio, proseguono lungo vie di promozione del nuovo ormai collaudate e paganti anche in termini mondani. A proposito di promozione mondana: la mostra che nel 1955 desta il maggior scalpore è “Gina Lollobrigida e ventisette pittori” alla Montenapoleone, cui partecipano tra gli altri Ajmone, Cassinari, Dova, Sassu, Veronesi. Segno che le mitologie forti, comunque, risiedono altrove.
9. 1956. Guerreschi vince nuovamente il premio San Fedele, centro il cui referente critico, Kaisserlian, sceglie di farsi assertore strenuo della nuova forma di realismo, non inquinato da implicazioni ideologiche, che va maturando. Ancora al San Fedele espongono in trio Ceretti, Guerreschi e Romagnoni, che Cardazzo presenta anche al Cavallino a Venezia. Aricò, Banchieri, Ferroni, Gasparini, Romagnoni e Vaglieri hanno una collettiva da Bergamini. Banchieri, Guerreschi e Vaglieri hanno personali alla nuova galleria Pater (che ha una mostra a due Aricò-Bellandi, e tiene mostre come una personale di Birolli, la collettiva Birolli, Cassinari, Gentilini e Morlotti, e “La terra, il ferro, il fuoco” con Fontana, Baj, Dangelo, Arnaldo e Giò Pomodoro).
La nuova generazione – per la quale prevarrà, negli anni, un’alquanto impropria definizione di realismo esistenziale, derivata dal titolo di un articolo di Valsecchi – offre un’alternativa engagée di qualche peso, che si estenderà in seguito anche a gallerie come il Salone Annunciata, nato allo scorcio di decennio dalla casa-madre Annunciata, al maturare sempre più forte e credibile dell’informale di connotato lirico che dal Milione, e dall’attività critica di Valsecchi, si estende sia in senso generazionale, sia a “occupare” altre gallerie. In un ciclo di mostre di giovani, il Milione presenta Merz, Ruggeri, Saroni, Soffiantino, Ajmone, Bendini, Chighine, Vacchi, Carmassi, Fasce, Ferrari, Pulga, e, in personale, Mandelli e lo scultore Ramous. I padri storici Afro, Birolli, Moreni e Morlotti sono anche alla Montenapoleone in collettiva. L’Ariete a sua volta dà spazio a nuovi protagonisti, la cui collocazione nel panorama del momento è atipica, come Della Torre e Meneguzzo, a una collettiva di Carmassi, Chighine e Dova. Altri giovani trovano i propri spazi: Bonalumi da Totti, Sangregorio da Pater, Strazza al Naviglio. Il senso della svolta generazionale e culturale è netto. Il Naviglio persiste nel ribadire la formula spazialista, che sempre più evidenzia connotati di strategia mercantile, in una collettiva con Bacci, Bergolli, Capogrossi, Crippa, Deluigi, De Toffoli, Donati, Fontana, Morandi, Peverelli, Scanavino, Sottsass (l’anno precedente vi hanno tenuto personali notevoli Scanavino e Sottsass), e offre personali di Calder, Caro, Capogrossi, Sonia Delaunay, Scarpitta. Il premio Graziano è andato nel 1955 a Peverelli, il Gallarate a Morlotti, il Monza a Gasparini, il Diomira a Romagnoni e Pignatelli. Quest’anno il Graziano premia Crippa. Di fatto, è il raggruppamento gravitante intorno al Naviglio a rappresentare ciò che rimane della compagine, pochi anni prima agguerritissima, dell’astrazione: e in una elaborazione differente, e assai più intrigante, di quella statuita dall’ormai declinante M.A.C. Anche uno dei protagonisti d’anteguerra, Melotti, è in fase critica: il suo nuovo esordio all’Annunciata, dopo anni di silenzio, è in nome d’una pittura di piglio lirico: “In pittura forse abbiamo ancora il modo di dir qualcosa – scrive l’artista –. In scultura più nulla da fare”: si sbagliava, per fortuna.
La partita, ora pare giocarsi tra l’informale d’implicazione naturalistica, forte del carisma dei Birolli, Cassinari, Morlotti, in stagioni felicissime, e d’una generazione crescente anche numericamente agguerrita, da un lato, e dall’altro la figurabilità nuova che s’intravvede intorno a Romagnoni (assai più che a Guerreschi). I Crippa, i Dova, assumono il ruolo di maestri giovani rispetto alla propria cerchia generazionale, forti d’un indubbio vantaggio di maturità rispetto ai colleghi, i quali per lo più nel decennio successivo troveranno le proprie autonome vie. Dallo spirito irrequieto del nuclearismo – che sulla scorta del modello surreale si preferisce movimento diffuso, contaminante – matura un altro segmento generazionale importante. Il 1957 è l’anno di molte conferme: la ripresentazione di M.A.C. Espace da Schettini; il quartetto Birolli, Cassinari, Morlotti, Vedova alla Montenapoleone; le personali di Fontana al Naviglio e di Veronesi all’Apollinaire; la collettiva “di situazione” alla Blu con Ajmone, Baj, Bergolli, Bertini, Bionda, Carmassi, Chighine, Clemente, Crippa, Dova, Peverelli, Romiti, Saroni, Scanavino e quella delle Ore con i Birolli e i Cantatore, i Cassinari e i Fontana, i Guttuso e i Manzù, i Meloni e i Morlotti, i Migneco e i Sassu, i Tomea e i Treccani. E di alcune personali fondamentali, Arp, Balla, Burri, Marca-Relli, Mathieu, Poliakoff, Rotella al Naviglio; Wols alla Montenapoleone; Schumacher al Milione, tra le altre: e Klein, con le “11 proposizioni monocrome”, all’Apollinaire, che imprime una svolta decisa alla maturazione dei giovani di orientamento dada. Una mostra di Gorky alla Montenapoleone, promossa da Afro e da Scialoja (autore del saggio fondamentale nel numero monografico di “Arti Visive” dedicato all’artista in estate) e proveniente dalla romana L’Obelisco, passa pressoché inosservata: se ne trova però traccia nel titolo di un’opera di Dangelo, irrequieto ricercatore quanto arguto lettore di fatti e pitture, dedicata in quell’anno al grande americano. E’ anche la stagione dell’affermarsi sempre più evidente dei “nuovi” Romagnoni e il duo Ferroni-Vaglieri da Bergamini, Bellandi, Guerreschi, Franceschini e Giunni da Pater, Recalcati da Totti, Bellandi Francesconi Schiavocampo al Salone Annunciata: anch’essi colpiti, più di quanto ora non appaia, dalla visione di Gorky. Il San Fedele va al giovane Banchieri; il Lissone a un informale “puro”, Schneider.

DeVecchi, Anceschi, Boriani, Colombo, Fontana, Manzoni, Galleria Pater, 1959
Al San Fedele, i nucleari si presentano avendo cooptato i “loro” giovani, figli d’uno spirito ribelle alle gestualità stilizzate delle avanguardie nuove, cui essi presumono di contrapporre una sorta di “rivoluzione permanente” (Schwarz pubblica anche scritti di Trotskij, non casualmente…): a fianco di Baj e Dangelo, ecco Klein, Manzoni, Arnaldo e Giò Pomodoro, Sordini, Verga, che in altro rassemblement tengono una mostra al bar Giamaica: Manzoni ha una personale nel foyer d’un teatro, alle Maschere. Ancora manifesti radicali (come Contro lo stile, firmato da una compagine internazionale, e la fitta produzione editoriale off gravitante intorno a Manzoni) segnano queste iniziative, la cui visibilità in seno al dibattito milanese rimane tuttavia limitatissima, oscurata dall’ufficializzazione del nuovo incarnata per un verso dalle declinazioni informali, dall’altro da Romagnoni e compagni. La mostra “Giovani artisti italiani” alla Permanente, l’anno dopo, ratifica in qualche modo lo statu quo delle novità del decennio, o così, almeno, presume: vi figurano tra gli altri Ajmone, Baj, Aricò, Banchieri, Bellandi, Cavaliere, Ceretti, Crippa, Dangelo, Dova, Guerreschi, Peverelli, i Pomodoro, Romagnoni, Sangregorio, Scanavino, Somaini, Tancredi (il cui soggiorno milanese è foriero di un influsso forte su una parte della generazione giovane), Vaglieri… E altre mostre di riferimento sembrano omologare la giustezza di questa prospettiva critica, indipendentemente dagli esiti qualitativi dei singoli: Bacon e Tàpies all’Ariete, Fautrier all’Apollinaire, Dubuffet al Naviglio Hartung all’Apollinaire e alla Blu, Franz Kline e Twombly al Naviglio (in parallelo con “The New American Painting”, che porta al Padiglione d’arte contemporanea i Gorky e i Guston, i Kline e i De Kooning, i Motherwell e i Pollock, i Rothko e gli Stamos).
Sono quelle che, prospettando uscite possibili dall’epidemia informale che segna gli ultimi anni del decennio, offrono lumi non solo alla maturità prima di artisti come Romagnoni, ma anche all’abbrivio di altri giovanissimi talentosi, i Della Torre, i Vago, gli Olivieri, gli Adami, gli Aricò, ben saldi nella prospettiva di non derogare dalla centralità dell’ipotesi pittorica, come invece la cerchia manzoniana va immaginando, e dalla necessità di spessore poetico dellimmagine in nome del lucido disagio figurale che gli “esistenziali” perseguono, e che in collisione con il popism dei primi Sessanta si farà nuova figurazione.
Ma alla Pater e al Prisma, ancora sotto il patronato di Fontana, e sotto l’influsso del genio precoce di Klein, si agita già una “nuova dimensione”, una “nuova concezione artistica”, come gli artisti stessi vorranno indicarla. Non è questione, sono parole di Manzoni, di dire diversamente le cose di sempre, ma di dire cose diverse: è la vicenda di Castellani, Bonalumi, Manzoni, Dadamaino, Gianni Colombo, Boriani, Varisco e molti altri, che alla via ormai considerata maestra dell’informale tentano di opporre ipotesi differenti, nate dall’alterità esperienziale di Fontana, da un diverso pensare e fare e vedere, ove un’idea di artisticità radicale travalica senza appello i confini del paradigma pittorico. Sarà quella che, nell’esperienza di Azimut, creerà le premesse del lavoro solitario e geniale di Manzoni nei primi Sessanta, e di vicende come Miriorama e dintorni, sulle vie d’un blank sempre più concreto sempre più mentale.
10. Scriveva il bollettino del Milione alla sua prima uscita nuova, novembre 1952: “Non sappiamo che cosa riuscirà a salvarsi, nel tempo, del mondo d’oggi; ma abbiamo la sicurezza che basterà, sopravviva, una sola di queste opere per indicare a quale margine estremo di civiltà lavorò con disperata dolcezza questa generazione, offrendo un contributo alla cultura europea che di giorno in giorno diviene più chiaro e perentorio”.