Milano 1950 – 1959. Il rinnovamento della pittura in Italia, catalogo, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1997, prima parte

“La S. V. è pregata di assistere alla riapertura della Pinacoteca di Brera ri­sorta dalla rovina della guerra. La cerimonia inaugurale avrà luogo alla presenza del Presidente della Repubblica il giorno 9 giugno 1950 alle ore 16.30. Il Direttore della Pinacoteca Fernanda Wittgens”.

Mostra di Pablo Picasso, Sala delle Cariatidi, Milano, 1953

Mostra di Pablo Picasso, Sala delle Cariatidi, Milano, 1953

1. Si può iniziare da qui, anziché da uno dei molti eventi provocatori dell’avan­guardia, a tentare di lumeggiare il clima fervido e ineffabile degli anni Cin­quanta a Milano. M.A.C., spaziali, nucleari, naturalisti autres, realisti incazzati… certo, tutto questo già agiva: ma era cultura di minoranza, marginale; di vitalità stupefa­cente ma senza potere carismatico fuori del compound sempre un po’ autore­ferente di chi si proclamava oltre. Attorno, era la città tutta che elaborava cultura, Cultura verrebbe da scrivere retoricamente (e Kultur, a fare i saccenti): un progetto plausibile di vita final­mente civile: e di modernità, vera, attiva, vivente, non relegata a modello te­stimoniale ed esemplare a far alibi (come oggi invece accade) alle sclerosi d’un passato che, allora, davvero era alle spalle. A rinascere era un’identità collettiva, non solo un segmento disciplinare, mortalmente specialistico, innovativo ma a futura memoria. Cattaneo aveva detto, in un altro tempo memorabile di Milano, d’una “idea della magnifi­cenza civile” che si ritrova ora in questi Cinquanta, e nelle arti elabora uno dei propri non occasionali luoghi simbolici. Per questo, anche, tra cultura che si pretendeva ufficiale e cultura nuova, al di là degli estremismi polemici reciproci, il terreno di contaminazione e di scambio era ampio e fertile: per questo l’inaugurazione di Brera risorta e le serate bizzarre al Santa Tecla, tra jazz e dadaismi giocosi, erano frutti non difformi dello stesso cuore.

L'Arethusa con interventi di Baj, Dangelo, Colombo, 1951

L'Arethusa con interventi di Baj, Dangelo, Colombo, 1951

La Scala era attiva. La prima Trierinale del dopoguerra aveva suscitato il di­battito sul grande progetto metropolitano. Ora, Brera riapriva. I simboli era­no tutti al loro posto. La cultura nuova poteva non essere solo cultura d’op­posizione, perché partecipava delle stesse mozioni, perché aveva avversari di qualità non nemici da abbattere. Ascolto il tuo cuore, città: come Savinio, tutti non solo l’ascoltavano, ma lo facevano anche pulsare. Non per niente utopia e potere dell’immaginazione sono le protagoniste vere del Miracolo a Milano di Zavattini e De Sica, 1951. Le scope volanti degli spazzini, certo, si trovavano in tutti gli studi: degli artisti, in primo luogo.

2. E’ interessante, e assai istruttivo, allineare anno dopo anno i tempi fitti della rinascita civile e istituzionale della città, a fianco di quelli delle mostre e del­le occasioni della cultura del nuovo. La cronologia ad annum che accompa­gna questi testi ne offre un quadro che, all’esperienza dell’oggi, appare im­pressionante. Per dire solo dei musei che riaprono o aprono: Brera, s’è visto, 1950 (e per merito di una delle figure di cui le cronache d’arte poco, ingiustamente, di­cono, eppure esemplare del grande amorevole funzionariato d’arte, Ettore Modigliani); casa Poldi Pezzoli, 1951; Ambrosiana, 1952; Museo nazionale della scienza e della tecnica, Permanente, e Museo del Duomo, 1953; Padi­glione d’arte contemporanea, 1954; Museo di Milano, Museo della Basilica di Sant’Ambrogio, e risistemazione delle collezioni del Castello Sforzesco, 1956. Nel 1952, intanto, la Pietà Rondanini, acquistata, viene collocata al Castello Sforzesco; l’anno dopo viene allocato il grande soffitto del Tiepolo, acquista­to, a Palazzo Isimbardi; nel 1954 Pelliccioli completa il restauro del Cenacolo leonardesco; di lì a tre anni saranno scoperti i restauri tiepoleschi al Palaz­zo Dugnani, e quelli dell’Ospedale Maggiore per l’Università.

Castaldi, Il Bar Jamaica, 1956

Castaldi, Il Bar Jamaica, 1956

E si tengono mostre pubbliche, storiche e no. Negli istituti riaperti e in sedi come il Castello Sforzesco, la Villa Reale – poi inopinatamente rinominata Villa Comunale –, il Palazzo Reale, e la Sala delle Cariatidi, di cui si decide di lasciare in vista i danni bellici. Sono mostre d’antico, Caravaggio a Palaz­zo Reale nel 1951, al Poldi Pezzoli, Canaletto nel 1952, “I pittori della realtà in Lombardia” nel 1953 a Palazzo Reale, “Il paesaggio italiano” alla Permanen­te e “La pittura olandese del Seicento” a Palazzo Reale nel 1954, il “Settecento veneto” alla Villa Comunale e “L’arte e la civiltà etrusche” a Palazzo Reale nel 1955. Ma anche d’arte del nostro secolo: Matisse alla Galleria d’arte moder­na, 1950, De Pisis e Tosi nel 1951, Rosso nel 1956; a Palazzo Reale, Van Gogh nel 1952, Picasso nel 1953, Dalì nel 1954, Mondrian nel 1956, Modi­gliani nel 1958, Vuillard nel 1959; Rouault al Padiglione d’arte contempora­nea, nel 1954, e nel 1958 “The New American Painting”; alla Permanente Bon­nard nel 1955, Semeghini e Cartier-Bresson nel 1956, Bischof nel 1957, Le Corbusier nel 1959. A manifestazioni come la Fiera Campionaria è normale contare due milioni e mezzo di visitatori. Le cento o duecentomila presenze, per una grande mo­stra pubblica, non sono l’eccezione.

Non tutto è roseo, beninteso. Il 6 febbraio 1954 il bollettino della galleria del Milione già lamenta: “Ci fu, è vero, il lodevole tentativo di una commissione d’acquisti per la Galleria milanese, per integrare le raccolte civiche in vista della prossima apertura del padiglione d’arte contemporanea; ma tutti sanno come fallì la buona volontà davanti all’insipienza degli amministratori civici, che rifiutarono di acquistare un dipinto di De Chirico metafisico e una scul­tura di Marino Marini (lietamente acquistata, subito dopo, dal Museo di Stoccolma). Nella moderna Milano si usa ancora così. Figurarsi altrove”. Ma la città, sale.

Michelangelo, Pietà Rondanini

Michelangelo, Pietà Rondanini

3. Non si spiega se non in un quadro ufficiale, e istituzionale, così imponente, il tasso quantitativo, non solo qualitativo, delle ricerche artistiche che segnano il decennio. Tali ricerche godono di condizioni favorevolissime sul piano della domanda complessiva di cultura, della quale i pochi dati riassunti pur forniscono un’idea attendibile, ma anche da altri punti di vista. In primo luogo, è da dire della trasformazione sociale della città, il cui pro­cesso è ben evidente sin dagli anni Trenta e giunge ora a compimento. I pri­mi essais della modernità che innervano vicende come le Triennali dal 1933, l’attività del gruppo del Milione e i suoi scambi con l’ambito architettonico e non solo, con figure carismatiche come i Ponti, i Fontana, i Melotti, i Figini, i Pollini, i Baldessari, i Persico, i BBPR, i Nizzoli, eccetera, dicono di una identificazione con una borghesia imprenditoriale e professionale afferente la cultura di fatto, non volontaristicamente, cosmopolita, internazionale, laica, mobile, aperta, venata ora d’un alito calvinista, ora di cattolicesimo social­mente engagé: per la quale l’idea di progresso non è vuoto proclama, ma au­tentico progetto e modo di vita.

Minoritario, per molti motivi, è tale gruppo sociale nei Trenta; ma dopo la guerra è proprio quello che si fa carico della rinascita di Milano, sotto ogni punto di vista: della guida intellettuale così come della effettiva e pragmatica ricostruzione. Con uno spirito di servizio – e implicazioni di mecenatismo en souplesse – di cui decenni dopo rimarrà solo il ricordo: così come dell’orgo­glio civico. Tant’è. Ad esempio, illuminante è la composizione di un consiglio come quello della Permanente (ente morale con spiccati elementi di gestione privata), che alli­nea negli anni, tra presidenti e consiglieri, figure come Carlo Accetti, Giu­seppe Caprotti, Paolo Stramezzi, Franco Marinotti, Giovanni Falk, Antonio Mazzotta, Cesare Chiodi, Giuseppe Torno, Gianni Mazzocchi: che figurano regolarmente anche nei registri della Permanente come acquirenti e donatori di opere (a fianco di enti e società come la Banca Commerciale, la Olivetti, la Camera di Commercio, l’Associazione Industriali, la Fratelli Feltrinelli), oltre che come discreti e disinteressati ripianatori dei bilanci meno rosei. La generazione artistica che era giovane nei Trenta e che aveva offerto, tra Milione e Triennali, un progetto di modernità, giunge giusto alla maturità in questo periodo, identificata come naturale compagna di via, come portatrice di un affine sistema di valori. In secondo luogo va evidenziato il peso consistente dell’iniziativa privata, che affianca organicamente tale fervore civico, essendone sotto molti punti di vista il motore primo. Nei Cinquanta è ancora fuor di luogo parlare di si­stema dell’arte: eppure, figura per figura, istituzione per istituzione, nulla manca a compiere un quadro esemplare. Dei musei, s’è detto: resta da dire di reggitori che si chiamavano Fernanda Wittgens, Gian Alberto Dell’Acqua, Costantino Baroni, Luigi Crema, ai qua­li strutture come l’Ente Manifestazioni Milanesi e l’Ente Provinciale del Tu­rismo offrivano i supporti organizzativi che permettevano, oltre alla stupefa­cente attività ordinaria, di concepire le grandi mostre che si allineavano fitte nei mesi.

Guglielmo Achille Cavellini

Guglielmo Achille Cavellini

Delle scuole, va detto. La Brera presieduta da Paolo Candiani – fine collezio­nista, tra l’altro, va sans dire – in cui insegnavano tra gli altri Marino Ma­rini, Giacomo Manzù (il quale lascerà nel 1954, dopo aver proposto una riforma delle Accademie pionieristica, non attuata né allora né mai), France­sco Messina, Aldo Carpi, Achille Funi, Pompeo Borra, Eva Tea, Tito Vari­sco, Domenico Cantatore, Francesco Wildt, Benvenuto Disertori, Enrico Bordoni, e, più giovani, Alik Cavaliere, Nino Cassani: pressoché tutta la ge­nerazione fervida che dalla fine dei Cinquanta occupa la scena esce da queste aule, nei cui dintorni si trovano i luoghi di bohème variamente (in genere troppo) mitizzati, dalla latteria delle sorelle Pirovini al bar Giamaica. E l’Università, ove non tanto pesava sul dibattito vivo dell’attualità la scuola storico-artistica (la quale pure opera a livelli d’eccellenza, con figure attive come Paolo D’Ancona, che con Wittgens e Maria Luisa Gengaro redige un manuale storico-artistico di larga circolazione) quanto piuttosto quella filoso­fica dalle mille aperture e contaminazioni: dal magistero sommo di Antonio Banfi, al quale crescono allievi come Dino Formaggio e Luciano Anceschi, a Enzo Paci che con “Aut Aut”, fondata nel 1950, dà vita a una delle riviste più vive del tempo, e che nel 1954 presiede alla Triennale il “I Congresso internazionale dell’Industrial Design”.

Non è tuttavia in seno alle istituzioni, alle scuole, che matura la forte compa­gine critica militante che segna quei tempi. Il livello istituzionale è quello che consente l’incrociarsi di riflessioni teoriche e di curiosità per l’oggi (si pensi all’attenzione alla modernità di studiosi come Gian Alberto Dell’Ac­qua e Franco Russoli; ma soprattutto alla normalità della compresenza, nei convegni e incontri numerosi, di personaggi che vanno da Rudolf Wittkower a James Ackermann, da Matila Ghyka a Siegfried Giedion, da Max Bill a Gi­no Severini, da Le Corbusier a Ernesto Rogers, da Lucio Fontana a Asger Jorn), ma è nel mondo dell’editoria di informazione che si creano le vere e proprie “trincee” da cui le ragioni dell’ arte nuova ingaggiano le loro furibon­de guerriglie. Se Leonardo Borgese, dalla tribuna nobile del “Corriere della Sera”, presidia le ragioni della cultura ottocentesca attardata, con aperture caute al postim­pressionismo e chiusure sdegnose alla modernità (a proposito di Van Gogh scrive nel 1952: “oggi a Milano si tributano alti onori a un pittore straniero che come temperamento nativo val certo meno di Gola e di Frisia”), e la compagine dei Vincenzo Costantini, Mario Lepore, Mario Portalupi, Mario Monteverdi, tra “La Notte”, il “Corriere d’Informazione” e il “Corriere Lombardo”, mostra poche curiosità in più; se questo è il fronte identificato come “passatista”, sono le rubriche di Guido Ballo in “Avanti!” e di Franco Russoli in “Settimo Giorno” a indicare un’alternativa di sinistra alla sinistra politicamente schierata con le ragioni del PCI dei Mario De Micheli e Raf­faele De Grada, vessilliferi del realismo; un orientamento in nome della mo­dernità che variamente si rappresenta anche in Raffaele Carrieri, Marco Val­secchi, Giorgio Kaisserlian, nello spettro di giornali e settimanali nuovi che andrà da “Tempo” a “Oggi”, dal “Giorno” a “Epoca”. Né va dimenticato il prezioso e non sempre valutato apporto di Mario Radice, pittore che scrive, sulle pagine dell’“Italia”, e di Gualtiero Schönenberger dalla “Gazzetta Tici­nese”: per non dire, ad esempio, della serie di corrispondenze parigine di Gianni Monnet, pittore e architetto, al “Corriere Lombardo” a proposito di astrattismo. E queste sono testate ufficiali, ancora, non specialistiche come possono dirsi il rinato bollettino del Milione o “Le Arti” di Garibaldo Ma­russi, o la migliore informazione del tempo, quella della “Domus” di Ponti: visibili, soprattutto, ben oltre l’orizzonte della pletora di bollettini, riviste off, volantini e manifesti che, pure, il fervore dell’avanguardia va producendo, e ove naturalmente trovano luogo le posizioni più acuminate, in cui brilla ad esempio il lavoro di giovani come Beniamino Joppolo, Giampiero Giani, Gillo Dorfles, Giovanni Testori e di giovanissimi come Roberto Sanesi, Emi­lio Tadini o Vincenzo Agnetti, figure sintomaticamente tutte liminari tra pra­tiche espressive e critica, che danno vita a Milano a un ambiente critico ca­ratterizzato da una vocazione extra-accademica, non legata alle grandi figure dominanti sugli studi ufficiali, di piglio assai moderno.

Fontana, Intervento alla Triennale, 1951

Fontana, Intervento alla Triennale, 1951

La cultura, nella grande stampa, è presenza normale, importante, non per do­vere d’ufficio, come normale è in quella politicamente engagée. E i transiti e le contaminazioni con il mondo più avventuroso della sperimentazione sono condizione fisiologica, non ancora avvelenata di chic e di peloso spirito di scandalo. Su tutto ciò spicca il fenomeno più rilevante del decennio, e del periodo che va dalla fine dei Quaranta ai Sessanta tutti, quello delle gallerie. Alla fine del 1956, il bollettino del Milione dice di “trenta e più gallerie cittadine”, rife­rendosi soltanto a quelle impegnate nell’opera di rinnovamento culturale: tanto da lamentare la insufficiente attenzione da parte di quotidiani e settima­nali sulla propria attività, nonostante abbia tenuto “solo” nove mostre in no­ve mesi, contro l’usanza di far durare le mostre una quindicina di giorni. Cu­riosa lamentela, alla luce di quanto s’è appena indicato: ma assai sensata, do­po alcune stagioni di splendore culturale: l’8 dicembre dell’anno successivo Radice, in un articolo in “L’Italia”, si chiede se Milano sia “caduta nel pro­vincialismo”, per la flessione qualitativa delle mostre pubbliche e dell’atten­zione critica della grande stampa.

In effetti, tale è la messe di eventi artistici che le gallerie private e non solo pongono in essere, che anche un panorama informativo che può ben dirsi soddisfacente (soprattutto alla luce della nostra conoscenza del dopo) viene avvertito come limitativo, inadeguato. Ebbene, trenta e più gallerie. Storiche come il Milione, l’Annunciata, Barba­roux, Gian Ferrari, ma soprattutto nuove, e destinate a segnare profondamen­te, con spirito imprenditoriale e sano istinto per l’avventura culturale, i corsi del dibattito, dal Naviglio all’Elicottero, dalla Colonna (che si fa carico della Casa della Cultura, per conferenze e incontri d’arte e architettura) ad Apolli­naire, dall’Ariete a Schettini, da Bergamini a Schwarz, alle più giovani, co­me Le Ore e la Blu, che aprono nel 1957. E a fianco, i luoghi dell’integrazio­ne con cultura architettonica e dintorni, dal Centro studi grafici allo Studio B 24. E a fianco ancora, altri luoghi espositivi di primo piano: in testa il San Fedele, centro religioso aperto alle inquietudini culturali, che tiene mostre pionieristiche e organizza uno dei premi più importanti del tempo.

Gallerie che sono, spesso, anche case editrici, in un progetto di promozione del nuovo che si intende integrale, e non privo talora di intenzioni didascali­che. A fianco dell’ormai storica casa Scheiwiller, giunta felicemente alla se­conda generazione, e alla più appannata Hoepli, aprono linee editoriali il Mi­lione, con libri e cataloghi di contemporaneo ma anche d’antico (memorabile è tra l’altro una collana diretta proprio da D’Ancona), Salto con il M.A.C., Schwarz con testi d’arte, letteratura, politica, Giani, Domus, Apollinaire, la Colonna. Tra le case “ufficiali” Silvana lavora a una linea dedicata all’antico, e Garzanti infittisce le pubblicazioni di grande informazione artistica interna­zionale, al pari di Vallardi e della nuova e autorevole Saggiatore: Bompiani apre invece una galleria d’arte, diretta da Guido Le Noci, poi fondatore di Apollinaire. Notevolissime sono certe edizioni d’arte, di memoria francese, infine, da quelle di Fiumara a quelle di Lucini.

Quello dei premi è un capitolo a sé. Dal dopoguerra, tutta l’Italia è percorsa da una vera e propria epidemia di premi, che nei Cinquanta vive il suo picco più acuto e che si estinguerà alla fine del decennio successivo. Premi genera­listi e premi militanti, orientati sulle avanguardie nuove: nel mucchio, taluni fondamentali, dal Lissone al Gallarate al San Fedele, appunto, dal Graziano al Diomira. Il “Bollettino della Spiga” che poi diverrà “Le Arti”, ai suoi ini­zi è quasi solo una sorta di gazzetta ufficiale dei premi. Sono, talora, luoghi di pura omologazione di generazioni ormai mature: ma in altri casi sono am­biti fondamentali delle strategie di affermazione del nuovo, sia in termini di sostegno economico agli artisti d’avanguardia – ai quali il mercato riserva una assai ristretta nicchia di collezionisti a loro volta militanti – sia in termini di capacità di far notizia, quindi di accelerare i meccanismi della notorietà. Né va sottovalutata la loro portata sul piano degli scambi tra i diversi centri: Biennale veneziana a parte, è soprattutto nell’agone dei premi che le ricerche dei vari ambiti locali, la cui fisionomia è assai marcata (da Roma a Torino, da Bologna a Venezia), hanno massimamente modo di intersecarsi. Tale è l’impatto sul dibattito dell’attività dei premi, in condizionamento reciproco con le strategie galleristiche, da determinare spostamenti significativi nelle gerarchie, almeno provvisorie, di valore, di artisti e correnti artistiche.

Gesto, n. 3, 1958

Gesto, n. 3, 1958

La critica contribuisce di suo a tale proliferazione, essendo, per testimonian­za sincera di taluni protagonisti del tempo, il “mestiere” di commissario e giurato una delle rare occasioni remunerative d’una professione altrimenti avara, oltre che dalla fisionomia economica tutt’altro che definita. Né a mol­to valgono, a quel tempo, e per tali ragioni, le riflessioni avvedute di chi, co­me Luigi Carluccio, uno dei pochi allora a ragionare senza remore ideologi­che o romantiche di economia dell’arte, propone sin dagli inizi del 1954, in un articolo in “La Gazzetta del Popolo”, di trasformare le decine di milioni spe­se per i premi in una seria politica di acquisizioni per le collezioni pubbliche. Gallerie, e premi: ancora, a fianco di un’imprenditoria d’arte tendenzialmen­te colta e ben consapevole del valore del rischio, ecco il mecenatismo e il collezionismo della borghesia che negli stessi valori si identifica. A fianco delle storiche famiglie impegnate nell’arte, milanesi o di riferimento milane­se per il mercato, De Angeli Frua, Jesi, Jucker, Feroldi, Valdameri, Mattioli – quest’ultima, come Jucker, nel 1956 sperimenta precocemente l’apertura del­la propria collezione al pubblico in occasione della “settimana dei musei” – ­molte altre sono le nuove protagoniste del tempo, da Mazzotta a Stramezzi, da Tridenti Pozzi a Kostoris (patron, tra l’altro, del premio Arbiter), da Tosi a Magliano, da Monzino a Malabarba, da Boschi a Cavellini, da Verdirame a Bernasconi, da Laurini a Consolandi, da Fumagalli a Fontana, al curioso e geniale Battista Pero il quale, non contento d’essere collezionista primario, fa del proprio bar in piazza 8 Novembre un vero e proprio atipico luogo espositivo, assai meno dilettantesco di quanto possa ora apparire. Raro è il collezionismo che oggi si direbbe di tendenza. Il caso più tipico è l’attenzione alle ultime vicende poggiata su un sostrato di maggior storiciz­zazione, sia essa quella nostrana delle avanguardie meno recenti (le quali pure, talora, solo adesso vivono attenzioni collezionistiche) sia, nei casi miglio­ri, quella dell’avanguardia internazionale.

Ciò avvia la separazione tra fasce di mercato diverse, ma infine comunicanti, che perdura tuttora in Italia, con un dominio paradigmatico del classico mo­derno italiano in grado di intonare delle proprie oscillazioni ogni altro valo­re: e la relativa separatezza del mercato nostrano rispetto all’ambito interna­zionale, dominato dal milieu parigino, che nel corso degli anni porterà, nono­stante qualche eccezione, a una marginalizzazione di fatto. Occorre qualche noiosa elencazione di numeri, assai utile tuttavia a com­prendere almeno per sommi capi i caratteri del fenomeno. Alla Biennale di Venezia del 1950 l’ufficio vendite, retto da Ettore Gian Fer­rari, incassa 61.016.235 lire a fronte di 661 opere esitate; due anni dopo sa­ranno 71.496.675 per 805 opere. Nella stessa Biennale due ceramiche di Fontana, un Cristo e un Piatto con battaglia, hanno prezzi rispettivamente di 150.000 e 100.000 lire. All’asta che si tiene il 27 e 28 aprile 1950 al Grand Hotel et de Milan a cura della Associazione nazionale gallerie d’arte moder­na e contemporanea (Finarte aprirà nel 1959, e terrà la prima asta nel 1961), aggiudicazioni interessanti sono queste: un Paesaggio del 1910 di Boccioni, 140.000; Ritratto di Alfredo Casella, 1920, di De Chirico, 330.000; una Na­tura morta del 1949 di Morandi, 150.000; La cantante di Borra, 1949, 160.000; Beethoven, 1923-24, di Casorati, 250.000; un Paesaggio del 1949 di Tosi, 70.000: il tutto, diritti esclusi. Lo stesso anno i conti Vimercati di Sanseverino chiedono, per la Pietà Rondanini di Michelangelo, 250 milioni. Due anni dopo, all’asta parigina della collezione Cognacq, Mele e biscotti di Cézanne raggiunge i 33 milioni di franchi, e Ragazza dal cappello guarnito di fiori di Renoir i 22 milioni.

Verso la fine del decennio altri elementi si possono assumere a riferimento. Alla XX Biennale della Permanente, 1957, il Comune di Milano acquista per 1.200.000 lire opere di una decina di autori come Dudreville, Conversano, Carmassi, Novello, ma già Découverte de Tiresias di Bertini costa 150.000 lire. Nel 1959 i registri di vendita della Permanente indicano il realizzo di 700.000 lire per una Venezia di Carrà, 200.000 per Fiori di Lilloni, 350.000 per una storica Tavoletta graffita di Fontana, 100.000 per Studio per giochi proibiti di Cavaliere. Di lì a pochi mesi un Tosi toccherà 1.100.000 lire, e un Dova 475.000. I debuttanti costano da 10 a 50.000 lire. Nel 1958 le aste lon­dinesi hanno esitato Cristo guarisce un cieco del Greco all’equivalente di 65 milioni di lire, Garçon au gilet rouge di Cézanne per 385 milioni, un Van Gogh per 231 milioni, un Manet per 156 milioni.

L’ammontare dei premi destinati ai giovani è ben più alto di quanto il merca­to riconosca loro in termini di prezzo. Anche questa è una ragione della cen­tralità dei premi, e del consolidarsi di fazioni in cui critici, mercanti e artisti agiscono in agguerrita sintonia. E’ in quest’epoca d’altronde che il neologi­smo “scuderia” prende a indicare tali congreghe: per l’affinità di rapporto che lega gli artisti ai mercanti – e anche ai collezionisti – che ne detengono il contratto economico (usanza peraltro, come noto, assai antica, risalente alle generazioni storiche dei Goupil e dei Grubicy, rinnovatasi in seno alle avan­guardie storiche, in specie francesi) e che assume valenza economica som­mando vendite, premi vinti, le preziose collaborazioni architettoniche, ecce­tera, con i critici a far da tramiti d’una informazione che assume tutti i con­notati originari della promozione. Esemplare è il rilevante e relativamente immediato riscontro mondano ed economico riconosciuto ai giovani espo­nenti dello spazialismo: frutto dei loro talenti, certo, quanto del genio im­prenditoriale di Carlo Cardazzo, della sua abilità nell’identificare strategie d’avanguardia e strategie economiche, lancio iterativo di “manifesti spaziali” compreso.

4. Si può leggere la vicenda specifica del dibattito artistico del decennio a parti­re da attitudini ideologiche, e stilistiche, e programmatiche, come è ovvio: ma solo a patto di proiettarle continuamente sullo scenario che si è voluto al­meno per sommi capi lumeggiare, e del quale lo scambio fitto con il milieu architettonico, di cui dice Paolo Campiglio in altra parte del catalogo, rap­presenta l’elemento forse cruciale. Con i suoi elementi di vitalità, ma anche le sue remore provinciali, con i suoi picchi qualitativi, ma anche considera­zioni non ovvie in merito a una singolare qualità media dell’humus culturale: con una divaricazione, soprattutto, rispetto all’ufficialità culturale, non ridu­cibile allo schema meccanico caro alle letture totalmente fondate sul modello avanguardistico e sulle automitologie relative: per paradosso, si può addirit­tura immaginare che, se il vecchio Borgese non avesse lanciato i suoi strali passatisti dalle pagine dell’autorevole “Corriere della Sera” – mostrando, tra l’altro, molta occhiuta attenzione alle cose nuove – agli jungen arrabbiati sa­rebbe mancato un bel padre da uccidere, infine…

Il quadro di lettura, dunque, non può essere solo quello della sequela dei mo­vimenti, dei gruppi, dei loro proclami e delle loro operazioni dissonanti, e dei reciproci scavalcamenti tra avanguardia e avanguardia: troppe volte, tra l’altro, segnati dalla non sempre limpida caratterizzazione di un comporta­mento avanguardistico che si fa coazione a ripetere, modello, a sua volta, statuito e riferibile a un’ortodossia. Per sintesi brusca: sul clima dei Cinquan­ta pesano di più eventi pubblici, ufficiali, come le grandi mostre di Picasso e di Bonnard (e quella, peraltro frutto del “colonialismo culturale americano”, della “New American Painting”, allo scorcio del decennio), oppure volantini distribuiti in trenta copie, e mostre viste da tredici persone? La specificità, e la ricchezza, di quella Milano, sono sia le une che le altre: congenite, a ben vedere, oltre che reciprocamente necessarie.