Claudio Olivieri
Claudio Olivieri, da Del resto, Conegliano 2001
Ancora si vanno cercando riferimenti, forme, relitti, appigli, ancora si pretende di verificare attraverso la garanzia del riconoscere. Ma dovremmo aver capito che l’invisibile doppia il visibile e, grazie al visibile noi siamo ciechi.
Si rivela ciò che è nascosto con l’operare senza lasciare tracce né residui; il risultato, quando c’è, non appartiene all’io ma ai suoi intervalli.
Dipingere la guardabilità del nulla, convincersi che nella pittura solo ciò che è escluso è visibile; è l’occhio che non vuole la sua parte: propiziamo l’indicibilità del non visto.
È struttura solo ciò che non è ancora struttura.
Dinnanzi alla superficie della pittura proviamo la memoria del permanere: abbiamo già visto, mentre vediamo, ciò che vedremo. Questo tempo di assimilazione visiva è la dimensione segreta del colore, la sola materia che possa operare il traslato tra spazio e tempo. Ciò che accade nella pittura è tutto qui; senza referenze proprio perché ambito di tutte le relazioni, senza attributi essendo memoria dell’interrogare.
Ciò che si congettura le vibrazioni, i movimenti, un etere, pulsante, che comunica solo col costante insieme di ogni suo elemento, interroga la nostra attenzione, mobilita centro e margine, dissolve la molteplicità, cade nello spazio dietro di noi. Chiamare senza nominare: ne va della sognabilità del sogno.
Lo spazio tra io e sé è il periplo dell’ignoto; anche perché tutte le distanze sono peripli.
Ci domandiamo dell’infinito perché noi siamo il punto della sua interruzione.
Le garanzie storiografiche, continuamente chiamate in causa, non sono effetti collaterali di una pratica che dissolve l’attuazione, il “fare”, che “presenta” invece di formare, ma sono invece l’unica risposta che, anticipata, annulla ogni domanda, vieta l’interrogazione.
L’infinito non fugge, c’insegue.
La poesia è la parola che sa di sognarsi.
Sarà possibile dare un’idea di “già non visto”?
La pittura dovrà risalire questa voragine, farsi memoria del dimenticato, di ciò che non ha corpo presente in cui prendere forma, che non si comunica, che è solo in virtù del non essere mai stato.
La storia esiste perché è stata dipinta.
Appare veramente solo ciò che sopravvive alla tentazione di sparire.
L’arte non può riprodurre la realtà; infatti essa non è imitazione, è concorrenza. La vera scommessa è il mondo come apocrifo.
Non confondiamo l’immagine con la cosa dipinta o, comunque, con l’oggetto della rappresentazione. Essa sta in un diaframma mobile, eccentrico, che si produce tra la mente e ciò che è fatto “per lasciare che l’immagine sia”.
Non c’è disillusione nel capire che non abbiamo misure ma un variare di distanze, che nella vertigine di un occhio che non può osservare da un “dove” c’è la compiutezza dell’ignoto, il suo definitivo lontano.
Si dà il visibile quando il tangibile ha doppiato l’estremo della propria tattilità, ha invertito il proprio senso di attrazione, ha sottratto alla materia ciò che è donato allo sguardo.
Penso la pittura come un’apostasia; è grazie ad essa che si potrà provare il negativo invece che celebrarlo.