Viaggio di Bendini, in F. Gualdoni, I. Iori, Vasco Bendini, Edizioni Grafiche Step, Parma 2012

Oggetti/soggetti, e naturalmente spazi, e situazioni. L’artista non ha Damasco teoriche o linguistiche rispetto alla vicenda sua forte degli anni Cinquanta. Ripensa, piuttosto, la propria strategia espressiva, che vuole di più penetrante e modalmente meno introversa lettura, per salvaguardare integro, e semmai far più radiante, il nucleo sorgivo del proprio istinto poetico.

Affronta l’oggetto, le materie, i comportamenti plastici e fisici delle cose con una sorta di ipertrofia affettiva da alchimista dell’anima in cerca di metafisiche non dilavate.

Bendini, Due minuti, 1966

Bendini, Due minuti, 1966

Misura con sistematicità rabbiosa i confini mondani del proprio e altrui corpo, come collassando l’acuta intuizione di Merleau-Ponty sulle stratificazioni significative dell’essere nel tempo e nello spazio mondani. E sono congegni come Il mio spazio, 1966, Come è, 1966, La ruota, 1967, Cronotopo, 1967, Per una essudazione totale, 1967, Cabina solare, 1967, Quadro per Momi, 1967: il quale ultimo chiede esplicitamente al compagno di via di sempre, Arcangeli, di leggere con pari passione questo alfabetiere di condizioni fisiche ed affettive, questo continuo trascendimento delle aspettative normali di forma e spazio e tempo verso una sorta di assoluto psicologico, di luogo insieme effettivamente fisico ed effettivamente, concretamente autre.

E Arcangeli, ancora, risponde, dicendo dell’“altera premeditazione”, dell’”intensità del silenzio”, di “una dialettica rivoltosa; più esplicita, ora, ma sempre nell’intensità del silenzio”, di queste opere, che sono “un autoritratto. Forse ancora, trasposto, un volto di Bendini” (18).

È, di questo tempo problematico dell’artista, la lettura ancora di maggior tenuta, perché frutto d’una consuetudine che ben sa auscultare e assaporare le continuità forti, né sente di doverle correlare più che per l’epidermide esecutiva al clima sperimentale, antipittorico, concettualizzante, dilagante nella seconda metà dei Sessanta.

A partire da una mostra collettiva a Ca’ Giustinian, 1966 (19), è piuttosto Calvesi a misurare nelle implicazioni fondanti la diversa temperatura delle opere ultime di Bendini rispetto alle ormai acclarate vicende new-dada e alle montanti esperienze poveriste, soprattutto per quanto essa implica in termini di tensione e scrutinio intellettuale, e di quell’acribia che già, nel decennio precedente, aveva impedito all’artista di farsi irretire dall’epopea della proclamazione esistenziale e del far grande di prestigio verso cui la pittura autre era andata troppo spesso inclinando.

Bendini, Urna, 1966

Bendini, Urna, 1966

Dunque, questa di Bendini è una “filosofia degli oggetti e delle apparenze” che fa divergere alla radice “questo mondo così solitariamente circoscritto” da ogni conclamato oggettualismo in circolazione perché siamo, qui, “nei termini di quella nuova ontologia che m’è sembrata un punto di convergenza fra molte ricerche attuali; un’ontologia di senso deweyano, intesa come riflessione sulla riflessione umana e sulle condizioni esperienziali che la sollecitano” (20): ch’è cosa ben diversa, per intento innesco ragione e svolgimento, dalla celantiana “ar­te che predilige l’essenzialità informazionale, il comporre teso a spogliare l’immagine della sua ambiguità e della convenzione che ha fatto dell’immagine la negazione di un con­cetto” (21).

Del resto, va pur detto – e non è constatazione di contingenza –  che mai in questi anni Bendini dismette la pratica del quadro, non avvertendo distonie e soluzioni di continuità d’approccio e d’intenzione tra tutte le pratiche sue.

La serie Gesto e materia prosegue, senza neppur avvertire l’esigenza d’una differente titolazione che sottolinei stacchi, che segnali varianti di percorso. Bendini ha avvertito il limite del possibile pittorico – e certo, dati i tempi, più d’un disagio disciplinare, in un ambiente che prediligeva le proclamazioni d’appartenenza, e il contrapporre accademia ad accademia, retorica stilistica a retorica stilistica – e ha scelto di operare una remise en question radicale, deliberatamente senza programma e confini. Ma è, né vuol cessare d’essere, pittore: all’estremo, esploratore d’un diverso confine, d’una ulteriore condizione e necessità, d’un ristabilito e riabilitato statuto del pittorico.

La fitta splendida serie di dipinti del biennio 1969-1970 proclama con evidenza tale vocazione (anche per prova e contrario: avrebbe potuto con ambienti e azioni farsi santone della generazione nuova, che proprio con lo schiudersi del decennio Settanta prendeva a occupare i palcoscenici dell’arte: sceglie invece di rifuggire l’insorgere del primo sospetto di compound e moda culturale: inflessibile, silenzioso, inattuale), che le proprie somme vuole tirare nella misura convenzionale del quadro. Esso, e in ultimo solo esso, può essere il vero cerchio magico – come titolava una delle sue ultime azioni corporee – e l’unico “spazio incontaminato, spazio altro, come unica e possibile difesa del sé”.

Nascono opere in cui gli antichi esperimenti polimaterici della pittura europea, irradiati dalle nuove sollecitazioni  di new-dada e oggettualismi diversi, trovano una rideclinazione concettualmente e concretamente precisata.

Bendini, Cabina solare, 1967

Bendini, Cabina solare, 1967

A Bendini non importa il trasferimento d’immagine, di sembiante, che le materie e gli oggetti del mondo travasano nel codice pittorico di lettura, per analogie o collisioni o evocazioni o tradimenti significativi.

Il montare per crescenza genetica delle paste dei dipinti della fine degli anni Cinquanta è intelligenza oscura della vitalità della materia entro il dramma della luce; ora, è la materia stessa, colta nella sua primaria fisiologia propria che si fa straniata pulsazione estetica/anestetica, nel suo avvenire come mozione energetica e insieme, nuovamente, veronica d’un tempo e d’un luogo della vita.

La matrice di queste opere è, come agli inizi, il limite tra respirazione indecifrabile d’un originario materico e filigrana allusiva, memoriale d’immagine. Ora, tuttavia, Bendini ha guadagnato una facoltà d’evidenza, d’asserzione estroversa del testo pittorico, sconosciuta ai rimuginii ossosi e inameni degli anni giovanili. Una sorta di splendore disperato, anche, trapela dai bagliori che plastiche, resine, colle, feltri, ovatte, e quanto altro egli assuma alla pittura per intuizione e scambio di riconoscimenti sensuosi e mentali, carpiscono e dilatano in lucore alto e distante dell’opera: facendone anche, osservava Pier Giovanni Castagnoli, “tangibili  e fisici” “luoghi simbolici” (22).

Fiore per Momi, 1974. Risorge, ancora con un omaggio all’amico, una voglia di esplorare per distillazioni feroci del proprio intùito materiale le possibilità dell’immagine, dell’apparire pittorico.

Dilavamenti e impronte di colore, ora sono le qualità d’immagine: e tonalità dorate e infine sensuose: e visionari geli siderei d’una lontananza tutta emotiva: e grumi che scoprono lo snodo d’un farsi che è, pienamente, respirazione e comportamento di colore, in cui un’algida castità gestuale filtra, orientando e temperando, sul corso oscuro e premente degli accadimenti, continuamente interrogandoli e provocandoli alla nudità.

Bendini tenta l’Alchimia dell’immagine (altre opere hanno titolo Memorie), nella confidenza della tela, ma anche agendo sullo splendore algido dell’alluminio, in cerca ancora d’una economia tecnica e strumentale che esorcizzi ogni tentazione di pittoricismo, di maniera. Alluminio che è materia resistente, e specchiante, e implicitamente sonora: non supporto ma sostanza, nei suoi caratteri identitari complice della fisiologia tutta d’immagine.

Bendini, Per una essudazione totale, 1967

Bendini, Per una essudazione totale, 1967

È questa l’“assorta insiderazione” di cui scrive Emilio Villa in una lettura vertiginosa di questo tempo, e “l’ardua rimonta, la risalita in ostinata quotazione verso il Momento (Momento-zero, Momento-infinito), per traversata o tragitto o traiettoria, a filo teso, lungo le sorgenti del mondo-genito, favoleggiato e seminato nella mente (la mens pittorica)”, nell’“estensione anoptica del corpo e della memorabilità” (23).

Un tempo lungo di meditazioni, ripensamenti, monacali – come sempre – concentrazioni, segue a tale nuova apertura. E di ricapitolazioni, d’una vicenda più che trentennale da cui stillare i gangli problematici ed espressivi veri, che ora è possibile leggere al di fuori della logica dei tempi, delle opportunità, di qualsivoglia dover essere mondano della pratica d’arte.

Protoastrazioni e informale, poverismo e comportamento: tutto, nella prospettiva lunga, perde le residue ragioni: resta l’ossessione del corpo e del volto, la voglia di natura e di naturalezza, di vitalità e di parvenza non implausibile dell’immagine, il sospetto la speranza d’un orizzonte che sia insieme d’anima e di forma: forma pittorica, né altrimenti può darsi.

La seconda metà degli anni Ottanta è segnata da uno strepitoso ulteriore soprassalto inventivo dell’artista, riottoso in fondo alla propria stessa storicizzazione. Egli si sente come libero, ormai, da qualsiasi obbligo dimostrativo e di ricerca. Intuisce che è il momento possibile di distillare il tasso di artificiosità tecnica dell’operare in nome di una più intima vocazione naturale dell’immagine pittorica: un naturale, s’intende, ormai neppur più problematicamente inteso all’interno dell’alterità incontrattata dell’arte.

Del colore, della luce, vede ora una condizione più alta e sospesa: e verrebbe da dire metafisica. Bendini ne tenta, ora, non un abbassamento, un controllo estenuante, della captazione sensibile, bensì una forzatura in senso iperestetico. La scommessa, l’ipotesi, è che anche l’ipertrofia sensibilistica può essere esorcizzata, e l’aspettativa ordinaria di bellezza trascendersi e purificarsi in un avvertimento distante, algido, riportato tutto alle fluenze e ai riverberi del mentale.

Bendini, L'Aib, 1969

Bendini, L’Aib, 1969

La scelta dell’oro, che diviene un motivo conduttore delle opere di questi anni, agisce in tal senso, a partire dalla nozione sua storicamente doppia, simbolica e materiale.

Dipinge dunque per sapienza e libertà una sorta di fervida, rilassatamente ambiziosa sua Giverny dell’anima, dispiegando i vasti Il ciclo delle parvenze e Il tempo comecreazione nella penombra dello studio romano: a far crescere luci e forme, per tessitura di segni determinati e di meticolosa souplesse, direttamente lì, sulla carta e sulla tela, per puri fluenti introversi corsi emotivi.

Le nuove opere hanno il sapore di cosmogonia intuìto da Villa nei lavori precedenti e confermato dal polittico La ballata dei dieci cieli, scommessa pittorica del 1983 che di queste era la premessa. Ori e bruni e grigi e bianchi, nel fremere intensivo dei gesti e nelle cadenze autorevoli dei segni – segni, talora, d’una contaminata marca orientale – scrivono un tutto introverso lasciarsi vivere e lasciarsi dipingere di Bendini, d’una sensualità fatta segreta che trova i propri compiacimenti, le proprie grazie, in questo canto grande al corpo/tempo.

“La mano – annota D’Amico – s’abbandona ad inaudite alterigie; l’animo si gonfia per via, facendo; si riempie di turgidi sensi, di slanci senza freno” (24) nel Ciclo delle parvenze e nella sequenza Tempo come creazione: senza virtuosismi, senza compiacimenti, per una sorta di diapason poetico d’energie e incanti.

Bendini, Iraq, 9 aprile 2003

Bendini, Iraq, 9 aprile 2003

Da sempre, s’è detto, riottoso al far grande e d’esso sospettoso, Bendini ora dilaga in uno svolgimento orizzontale da telero, in cui il segno materiato si traccia, s’intesse, dilava, si rastrema e pausa in uno stream che da emotivo si fa naturalmente fisico proprio ad assaporare riflessivamente il tempo interno/esterno del fare come far apparire e far essere; in una sorta di erotica esplicitata, ora, che subito si trascende in accenti d’umore sublime, anche, in quell’avvertirsi definitivo pittore di luce – ma quale luce, diverrà la questione – che Bendini accoglie di se stesso dal tempo di Alchimia dell’immagine.

Il corpo, il tempo. La sapienza definitiva di Bendini ha doppiato il capo della sofferenza acuminata, dei furori e delle ossessioni. Restano i sapori, i climi, le suggestioni del suo periplo lungo, fatti delle inquietudini della pittura degli anni Cinquanta come delle azioni dei Sessanta, come dei minuti disegni che da sempre costeggiano e nutrono la sua opera maggiore, nudi/paesaggi che valgono, davvero, la ricerca del céliniano secret du monde.

Ecco, infine, le Ipotesi d’attesa inaugurare il decennio Novanta.

Il colore magro e alitante luce, vinto da spossatezze improvvise, oppure di ispida forza genetica, trova ora le condizioni di una crescenza lenta, ampia, clamorosa dell’immagine, che si fa, davvero, paesaggio tutto emotivo, stato d’animo fatto luce/colore, e figura, ancora: pascolo dell’occhio e degli affetti, meraviglia ora ombrosa ora accecata, d’una lieve persistente sensuosità femminile.

Le apparenze ampie, cantate, prestigiose senza orgoglio; le movenze e le temperature sensuali, e la serena pienezza del fare: molti elementi ne fanno delle opere di questo tempo la prosecuzione naturale del Ciclo delleparvenze. Ma ora Bendini può affrontare con ancor più nettezza il cuore del suo istinto pittorico, la nerità, il dilucolo che innesca la differenza prima, la sorgente dell’immagine.

L’artista transita, come già nel ciclo precedente, nei pressi di più esplicitate tentazioni naturalistiche, quasi a confermarsi nella certezza della diversa naturalità ormai raggiunta. Ma tutti d’affetti e pulsazioni emotive sono ora i suoi paesaggi, e pure fluenze d’animo sono quelle che guidano la sua mano avvertita e libera.

Bendini, n. 3, 15 gennaio 2011

Bendini, n. 3, 15 gennaio 2011

Il nero, così, ricresce per stesure dense e forti, talora irritate e quasi grumose. È nero sontuoso di barocco romano, verrebbe da dire: quanto, del bianco, d’una pienezza senza sospetti e ombre, d’una variabilità tonale spinta fino al candore orgoglioso, che sono i sensi nuovi di questo Bendini.

Gli accadimenti del bianco, innervato d’irritazioni celesti, e rosa, e gialle, e ocra, segnano la densità ora calcinata ora inturgidita delle movenze del nero, stratificate, venate da dilavamenti e impronte, condotte verso un grigio dalle indicibili luci, come mai era prima accaduto.

Ancora neri, e ori, abitano spesso le pitture di Bendini, d’altronde. E un oro, questa volta, dagli splendori più rattenuti, più consapevolmente casti, tonalmente virato verso un rosa lontano, meditabondo. Bendini non macera più nell’umiltà e nel dubbio il meretricio possibile della suggestione. Il suo è, ora, un processo che verrebbe da dire d’inflessibile rigore orientale, rimemorando l’antica intuizione di Calvesi a proposito d’un umore zen del suo operare tutto. Occhio e mano, per esercizio continuo e inesausto, trovano ora infine, dopo una seriazione fitta ininterrotta di prove, una sorta di risonanza ultima e perfetta: che è fare primo e ultimo, come una sismografia emotiva tutta interiore ma certa della sua propria pienezza e identità, che non chiede di esistere né la propria esistenza afferma: che semplicemente si dà, accolta dall’artista come s’egli ne fosse il paredro, simmetrico e congenere.

L’artista si dispone a una sorta di concentrazione lancinante, nel silenzio dello studio che vale solitudine rituale: beninteso, d’un rito laicissimo, prosciugato d’ogni retorica possibile, di tersa severa asciutta pienezza, in odore di sapienza meditante e meditata.

E ogni quadro, ogni carta della sequenza fitta che s’intesse tra quadro e quadro come una sorta di fertile continuo non minore, è come una sorta di esperienza totale, di ekpurosis, di conflagrazione del senso che cresce prorompendo ma insieme senza dramma e con lucida dolcezza.

Come dai suoi esordi sempre, Bendini mette in gioco tela dopo tela ogni garanzia di valore, ogni clausola cautelante d’un fare risolutivo. L’avvertimento scrutinante della mano che fa risuona in eventi di clamorosa persistenza sensibile, corpi impredicati – o forse non corpi ma sospetti, dubbi visionari di corpo ora – che avvengono, in un’alterità ormai acquietata d’ogni problema pittorico.

Non più cicli dipana, d’altronde, la sequenza delle tele. Né un unico vasto affresco fatto di giornate. Ogni volta, riprincipiando, Bendini provoca l’immagine dicendone appena un’intonazione, una movenza prima. Lascia che poi il processo si dipani in una sorta di cecità sapienziale, come per una naturalezza ormai congenita al processo, alla mano, all’animo: sino a farsi spazio della luce con la luce, d’una materia che si smemora della propria sostanza; sino a farsi immagine ultima, immagine ultima possibile.

“Ma ora, ma oggi – m’è accaduto di scrivere – in questa sua lucente maturità estrema, egli ha preso a sapere che con la soglia ultima, con la gaddiana “tacita, ultima combinazione del pensiero”, comunque, il nostro pensare il mondo e pensarsi al mondo fa sempre i conti. E che dunque la questione del senso e del non senso dell’immagine non riguarda il destino mondano dell’opera, ma la necessità ultima” (25).

Ed è una bellezza delucidata e insieme stremata, quella che i giorni portano a Vasco. Problematica, periclitante, interrogativa. Ma bellezza che, definitivamente, non si vuole più di questo mondo.

Note. 18. F. Arcangeli, Vasco Bendini, catalogo della mostra, Studio Ben­tivoglio, Bologna, 23 – 30 settembre1967. 19. M. Calvesi, A. Napoletano, G. Scardovi, Bendini, Calzolari, Mazzoli, Ovan, Pasqualini, catalogo della mostra, Sala degli Specchi, Ca’ Giusti­nian, Venezia, 1966. 20. M. Calvesi, Bendini ’65-’68. Oggetti e processi, in G.C. Argan, M. Calvesi, Vasco Bendini, catalogo della mostra, Galleria Senior e Inarch, Palazzo Taverna, Roma, 11 novembre 1968. 21. G. Celant, Arte povera, catalogo della mostra, Galleria De’ Foscherari, Bologna, febbraio 1968. Altrove l’autore ha scritto di “focalizzazione di gesti che non aggiungono nulla alla nostra colta percezione, che non si contrappongono come arte rispetto alla vita, che non portano alla frattura e alla creazione del doppio piano io e mondo, ma che vivono come gesti sociali a sé stanti, quali liberazioni formative e compositive, antisistematiche, tese all’identificazione uomo-mondo”: Arte Povera. Appunti per una guerriglia, in “Flash art”, I, 5, Milano, novembre-dicembre 1967. 22. P.G. Castagnoli, Vasco Bendini, catalogo della mostra, Galleria Pietra, Milano, 9 gennaio – 9 febbraio 1973. 23. E. Villa, Apertura vocale per alto sigillo, in Vasco Bendini, catalogo della mostra, Galleria L’Attico, Roma, 18 aprile – 9 maggio 1980. 24. F. D’Amico, Vasco Bendini, catalogo della mostra, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 20 gennaio – 18 febbraio 1989, Edizioni Mucchi, Milano 1989. 25. F. Gualdoni, Vasco Bendini. Il tempo, la luce, catalogo della mostra, Galleria Bianconi, Milano, 6 ottobre – 20 novembre 2010.