Bendini (prima parte)
Viaggio di Bendini, in F. Gualdoni, I. Iori, Vasco Bendini, Edizioni Grafiche Step, Parma 2012
“In questo modo mi accorgo che il mio processo psichico si materializza, che la mia psiche vive nella materia, anzi con la materia. Il pensare, il sentire è il fare. […] Perché, se la struttura dell’opera è espressione simbolica anche di me stesso, da un lato rappresenta i miei processi mentali, le mie invarianti, dall’altro si fa e vive fuori di me, autonomamente, si autoesprime […].
Il senso del mio operare può racchiudersi in questa semplice definizione: stabilità dell’instabile. La forma di un’immagine pittorica è sempre un diagramma di forze; ed è da esso che noi possiamo dedurre quali impulsi agiscano o abbiano agito sull’immagine o dentro di essa. Questa dinamica deve essere sempre interpretata dall’artista, il quale, cogliendo nell’organismo pittorico le mutue relazioni tra forze, individua, al tempo stesso, le leggi costanti della sua stessa psiche intesa come archetipo. Il mio azzeramento figurale degli anni Cinquanta non è nato infatti da uno sfogo distruttivo o polemico, ma da un’inevitabile e primaria ricerca delle condizioni operative e degli aspetti grammaticali e sintattici del mio linguaggio” (1).
La nota autografa che Vasco Bendini pubblica nel 1986 indica, retrospettivamente, due snodi problematici e programmatici che sin dai suoi inizi sempre appaiono in lui chiarissimi. Il primo è il rapporto di complicità sensuale e intellettuale tra autore e opera in seno a una assunta e riconosciuta totale autonomia del formarsi dell’immagine, ch’era scommessa allora rara – e perciò spesso di lui non compresa – nel panorama della ricerca italiana. L’altro è la deliberata esenzione del processo da ogni intento d’esemplarità e dimostratività: Bendini non intendeva, in altri termini, affermare un dover essere del fatto pittorico, non una qualsiasi normatività estetica e stilistica, e piuttosto una chiave possibile di ciò che altrimenti un Georges Mathieu, padre dell’“abstractionnisme lyrique”, ha sintetizzato come “retrouver le néant des limites de la liberté à partir de laquelle tout redevient possible. Ensuite, les notions de préméditation et de référence à un modèle, à une forme déjà utilisée se trouvent définitivement bannis” (2).
Alla fine del decennio Quaranta e all’avvio del successivo, in effetti, nella Bologna già non più “cruciale” ma ancor ben viva e pittoricamente operosa, la voce della nuova generazione francese non giunge ancora, ma per chi abbia da riconoscere e incanalare la propria ansia espressiva i riferimenti intellettuali certo non mancano. Letterari e filosofici a un grado d’incidenza non secondario, in primo luogo, per un artista che lo voglia: e, naturalmente, pittorici.
Bendini da subito si colloca in una sorta di orientamento eccentrico rispetto ai modelli dominanti, concentrandosi su un rovello individuale affatto particolare. Studia e saggia concezioni, formulazioni stilistiche, modi, ben consapevole di doversi dotare d’un bagaglio disciplinare affinatissimo proprio per garantirsi piena libertà d’esprimere; ma è del tutto disinteressato alla misura retorica del mestiere, della professione di bottega allora ancora così incombente: soprattutto, non intende il magistero altrui come condizione d’affiliazione a un compound, militante o no non importa, in seno all’ambiente dell’arte, scelta che lo vedrà peraltro sempre riottoso a far gruppo in tempi e in circostante anche altamente favorevoli: anche a costo di render teso, in più d’una occasione, il rapporto d’interlocuzione assai intenso che intratterrà con un sodale ispido e amorevole come Francesco Arcangeli.
I riferimenti primari dell’artista in formazione sono, su tutti, Virgilio Guidi, e per vie meno esplicite ma decisive, Giorgio Morandi.
Di Guidi importa quel suo saggiare l’estremo di puri coaguli cromatici di luce, di formazioni d’immagine d’aperta e vibrante struttura, in una chiave di visibilità che si stringe a farsi, in concentrazione esclusiva su colpeggi dalle tessiture allentate, con quei toni che s’intridono vicendevolmente sino a candori lontani di cielo, pura emanazione. Importa quel decantarsi dell’immagine a epifania minima entro il baluginare (il “dilucolo strano”, avrebbe detto Giorgio Manganelli) di nudi aliti temperati: “perché quello che noi chiamiamo chiaro sia luce, bisogna che quella che noi chiamiamo ombra sia splendente”: così lo stesso Guidi (3).
Non è abbandonare il figurare. È avere inflessibilmente chiaro “che l’idea dello spazio s’identifica con l’idea della luce e che la luce sia l’elemento attivo dello spazio”, lasciando dunque che le movenze cromatiche giochino di per se stesse la partita con lo spazio e con l’immagine. Quanto ciò abbia contato non solo per Bendini ma anche, ad esempio, in modo diverso per un Tancredi, è fatto ormai largamente riconosciuto.
Dunque Guidi e, come subito chiarirà Arcangeli nel memorabile saggio del 1958 (4) per cui si rimanda alla documentazione della vicenda critica di Bendini in altra parte di questa pubblicazione, Morandi: con una poggiatura sironiana – ancorché priva dell’etica sua spigolosa del costruire l’immagine – che il critico intuisce con straordinaria penetrazione.
È certo il Morandi del dopoguerra, avvinto al dissolversi drammatico delle forme nelle materie piene e frementi, nella vertigine sottile dell’oggetto che cresce alla luce come consistenza in un pennelleggiare mosso e fluente, intriso di sottili sprezzature luminose, e nel rendere le sagome come evidenze dai contorni intimiditi, sino a farsi dire, per un tempo, astratto (ché egli stesso afferma che “nulla è più astratto del mondo visibile”): è questo, il Morandi di Bendini in quel decennio Cinquanta (5). Ma è anche e soprattutto quello dello scrutinio intellettuale esercitato in una sorta di stringente acribia, portatore di un’identità d’artista, per chi intendesse coglierla, impastata d’etica inflessibile e di un senso feroce della necessità dell’immagine, che varrà per il giovane artista come lezione definitiva.
E vale inoltre, credo, di Morandi l’esempio del disegnare, di una dignità di ricerca mai così centrale nel secolo – se non, appunto, in Sironi – nel fare della pratica del segno come filo monodico affilato che non definisce ma, ancora, fa primariamente spazio nella luce, il seme della germinazione intelletta di forma: cosicché quando Eugenio Riccomini scriverà per Bendini di un disegno che “si attua analiticamente, in un lento processo di disgregazione di ogni impurità esistente” (6) certo a quell’esempio esplicitamente farà riferimento. E quando Bendini assai precocemente affiderà i suoi rimuginii all’azzardo d’un segno snudato e a tratti lacerante, saprà di potersi consentire questa esperienza in nome d’una dignità operativa già riconoscibile.
Esempi sono dunque, quei maestri, per il giovane artista che va cercandosi, e cercando, chiuso in una sorta di straniamento silenzioso dai toni fervorosi, e a tratti sgangherati, del dibattito bolognese e italiano.
Egli muove, dunque, da un rapporto di concentrazione sul sensibile inteso come penetrazione definitiva nei suoi fattori di frequenza essenziale per poterne restituire poeticamente le densità espressive. E la resa pittorica deve darsi in uno spazio che sia non metrica quantitativa ma dimensione piena della coscienza, luogo non collocazione, tensione e relazione non rapporto statuito. E deve dirsi nella facoltà sovranamente autonoma del colore di manifestarsi come tònos nella luce, sostanza identitaria dell’immagine esente dal dramma mortale della referenza, e perciò vivente, pulsante, fluente nel tempo sospeso ma pieno dell’esperienza del fare.
Il luogo dell’immagine è per lui una sorta di clima mentale indefinito, dunque, ma non aleatorio, anzi a un grado altissimo di necessità e intensità entro la piena autonoma alterità della pittura. Questo Bendini comprende nel tempo precocissimo dei suoi primi Cinquanta: che l’immagine non si vuole apparenza ma apparire, cioè un darsi dotato di corpo e sistema nervoso e respirazione che gli conferisca una condizione di fisiologia piena e potente.
Forse anche qui approda, per anomali rami, la suggestione martiniana di “disinvolta sostanza”, in una corporeità tutta di pittura formantesi per via di colore/luce che assume un’identità, provvisoria divagante instabile ma congruente e nitida, avvertibile emotivamente e intellettualmente ormai senza equivoci referenziali (7).
Di questo corpo, conta più che il tegumento il sistema nervoso dunque, la trama delle energie, dei corsi che per vie interne e impreventive ne hanno deciso la qualificazione. Così, in anni in cui temi come il formare e il formarsi, il naturalismo e la naturalità, la materia e il segno, il gesto e il corpo, trovano uno spettro caleidoscopico d’intendimenti contigui, spesso varianti per minimi e pur sostanziali accenti, Bendini intuisce, nel piglio autorevole e ultimativo del gesto che segna, erede d’antichi automatismi ma, come uno jaku, risentito alle implicazioni ultime; e nella levità luminosa delle materie asciutte, d’addolcita e semplice magrezza, che gli sono caratteristiche, di possedere la chiave d’una espressione forte e tipica, di precisata autonomia.
Così la serie dei Segni segreti e delle Teste, con le sostanziose implicazioni dello schema di paesaggio e figura che eccitano, non devono leggersi in chiave d’un ubi consistam tra le file dell’astratto, magari con venature venturiane, oppure quelle d’una precoce atmosfera autre, di tipo stilistico, o tanto meno strategico. Sono, nella loro asciutta e severa sperimentalità, nel loro ergersi sulla spaziosità respirante e climatica della tela, del foglio, la ricerca radiante d’una pratica che sconti quelle posizioni teoriche in nome d’un affondamento senza rete, senza clausole, nell’intendimento del mondo e nella sua sorgiva resa espressiva.
Apparenza, e corpo altro d’immagine, rappresentano dunque la questione vera che Bendini decide di affrontare, con singolare capacità di collocarsi al centro nevralgico del dibattito artistico – alla cui portata e alle cui posizioni è tutt’altro che indifferente – e insieme di mantenersi in una sorta di a parte vagamente antiteorico, certo antiintellettualistico, concentrato tutto su un colloquio confidente e ravvicinato con il fare la pittura.
Cerca, nello scavo aspro e incontentabile, proliferante, dei primi anni Cinquanta, il punto limite di affioramento dell’identità dell’immagine, lo statuto primario del suo essere forma dello spazio. Il segnare, il tracciato, ha in questo senso valore fondativo, e una priorità concettuale che Bendini esplora ampiamente, nella seriazione stupefatta e ossessiva delle opere.
La nascita della serie Gesto e materia ne è la naturale conseguenza. La “concisione” di cui dice Pallucchini nel testo del 1956 per la mostra modenese alla Saletta (8), la nuda vibrazione emotiva dei Segni segreti, così introversi eppure speranzosi d’un possibile d’immagine, ha in sé un ritegno, un sospetto. Bendini non conosce rigorismi da less is more, ma la fase tutta di quelle carte e tele chiede alla neutralità di quei fondi una condizione in certo senso privilegiata d’espressione. L’immediatezza emotiva del segnare – anche quando, nelle Teste, il piglio prestigioso e urgente delle pennellate invade tutto lo spazio – guadagna in precisione analitica, e in evidenza, dal fatto di aver posto in scacco preliminarmente il valore autonomo di materia, di tintura, della pasta colorata.
Ora Bendini sa che l’equivoco e il mistero del corporeo devono passare da quell’esperienza, con tutte le implicazioni storiche ineludibili che ciò comporta, da certi cromosomi espressionisti al Morandi visionario dei Trenta alle mitologie secentesche in corso a quei tempi, per esempio. E sa che la risoluzione ne deve venire da una sorta di ribaltamento retorico dell’approccio: trovare la risonanza tipica del segno/gesto, la sua facoltà qualitativa di far essere l’immagine, a partire da una condizione di saturazione, di assedio quantitativo della materia e delle sue consistenze e captazioni sensibili.
In termini filologici, giustamente Arcangeli spende – e con la giusta cautela – i riferimenti a Fautrier e Wols, avvertendo anche il rischio d’eleganza che il talento di Bendini possa farvi inconsapevolmente lievitare (9).
Altro ha alle viste, però, ancora una volta, Bendini. La centralità assiale della Testa, schema privilegiato in molti di questi lavori, con le implicazione di naturalità e di parvenza che l’innesco tematico lascia echeggiare, gli offre un impianto strutturale a forte densità di senso e insieme assai semplificato. Su questa base, egli evita di farsi irretire non solo dall’enfatizzazione angosciosa del pittoricismo, ma anche da quella sorta di blow up vegetale e animale, magmatico per programma, che trova larve e filamenti sotto le movenze intensive della materia pittorica, che fa da alimento ma anche da limite all’informale naturalistico più praticato, al quale l’artista ha un vago accostamento solo in un torno d’opere assai ristretto, a metà decennio. Ben se ne avvede, e precocemente, lo stesso Arcangeli che dell’ipotesi naturalistica è il più convinto assertore, dicendo per Bendini dello “spostarsi di questo equilibrio di specie naturalistica verso una pittura dove prevale, senza distruggere l’altro termine, una strana accentuazione dello spirituale” (10).
Non solo. L’artista si consente, agendo di nuovo a partire da uno spettro d’inneschi problematici assai vasto – la nerità assoluta e sorda, di disperata durezza, di certe opere; il clamore policromo ridotto a un silenzio attonito e ansimante, in altre; il dilavamento liquido e nevrotico dei toni, in altre ancora – di risolvere la questione dell’affiorare alla parvenza della forma, ancora per via di luce.
Le pennellate brevi, rattratte, urgenti, oppure il distendersi liquido e stratificato delle colature, hanno rialzi improvvisi, grumi come nuclei, che rispettano la filigrana dell’orizzonte e dell’asse verticale e agiscono invece a far risuonare, di questa crescita d’immagine, l’affioramento di lontani baluginii, di lucori, di non disincantate bianchezze.
La materia è ricca, d’un turgore che lascia erompere il rapporto sensuale che Bendini accetta d’intrattenervi, ma anziché eccitata, è provocata continuamente a un’umiltà fisiologica, a un pudore che ne fa una quantità neutralizzata, inerte e inespressiva in sé. Bendini, di nuovo, non ammette la facile captazione sensuosa di quella che de Chirico chiamava “bella materia tinta”: se il suo dipingere è finzione, esperienza altra a ridosso del mondo sensibile, l’immagine che ne nasce non è illusione, né teatro: è effettiva figura del possibile, con il corpo suo, la sua anima, la sua propria vita.
Certo, l’“essenzialità materica” e il moto “tacitamente convulso” dei gesti intuìti allora da Calvesi (11) sono la traccia primaria di questo momento, ben più fondativi del debito climatico di titoli occasionali come Larva o Reliquia.
L’atteggiamento di Bendini è infatti comunque acutamente analitico, e per certi versi drammaticamente interrogativo, in questa fase complessa, trascorrente per una sorta d’insanabile urgenza da un rialzo aspro di paste talora concitate, in cui l’immagine è “accomunata e incorporata alla opaca oggettività dello spessore, della pasta” (12), a sequenze di tele dai toni dimessi e smagriti, d’aspro lucore “entro uno spazio più largo e pausato, ma di un’architettura diafana e appena accennata” (13) sino a, inoltrandosi nel decennio nuovo, “distendersi al gesto largo della spatolata con una morbidità quasi assurda, paradossale” (14).
La sua condizione primaria è d’espressività incoatta, di poeticità concentrata e introversa: ma essa si pensa, si riconosce, e si dispiega in un rapporto con il linguaggio fatto di scrutinio profondo e lucido, senza compiacimenti affettivi, di verifica definitiva e di purificazione di ogni elemento, di ogni snodo, di ogni modalità operativa. Per questo, soprattutto, la sua posizione è incomparabile, nel clima di quegli anni, se non con quella di altre soggettività forti e atipiche come un Emilio Scanavino e un Mattia Moreni.
È tempo di materie, ma ritorna in Bendini, come per ansia d’un continuo à rebours nelle sue ragioni espressive prime, un’esigenza forte di disegno, che nei primi anni Sessanta si nutre anche della sperimentazione d’una tecnica alla prima apparenza ostica per lui, la litografia. L’occasione pubblica unica ne è l’edizione, per L’Attico in Roma, della cartella Sette litografie di Vasco Bendini, anno 1961, per le quali Arcangeli dice di “nere privatissime tempeste” e d’immagini “erose talvolta fino alla consunzione” (15). L’esperienza si racchiude un breve volger d’anni in cui l’artista pare ricapitolare con misurata acribia, e insieme voler affettuosamente prolungare, la concentrazione spasmodica dello scorcio ultimo dei Cinquanta, d’un segno breve, fratto, come sismografico, che agisce in controcanto, talora, al pulsare smagrito e come calcinato delle tonalità, forte d’una ispida probità cromatica. Un’altra cartella con sei tavole, accompagnate da una poesia di Roberto Roversi, sarà realizzata a Bologna nel 1965.
Bendini si trova, all’esaurirsi progressivo e mai placato della stagione lunga di Gesto e materia, a un ulteriore bivio, e punto-limite. Da un lato, egli avverte che la processualità di cui s’è dotato gli consente di ritrovare un passo figurale non equivoco o eteronomo: la serie breve delle Figure, nei primi Sessanta, è l’esito alto ma per altri versi ultimativo, date le premesse, di questo corso analitico e inventivo.
D’altro canto, Bendini prende a riflettere sul fatto che nell’approccio disincantato e non complice al valore quantitativo della materia pittorica permane un elemento d’ambiguità. Se essa è materiale, inerte in sé se non per il carattere attivamente formativo che l’artista vi induce e che la trascende in sostanza, il processo espressivo deve potersi estendere a una dimensione oggettiva e contaminante: ove non valga più quanto acutamente intuiva Calvesi già nel 1959, il rapporto esclusivo “non già tra sé e la realtà (che sia la realtà naturale o quella del sogno, della visione e dell’emozione) ma tra parte e parte di sé: tra l’io pensante-senziente e l’io che agisce e realizza” (16), ma possa far consapevole irruzione un sentirsi vivere come coscienza nella storia, una misura esistenziale che corra sul confine tra se stesso e il mondo dell’esperienza oggettiva.
Certo, il polimaterismo rideclinato da Burri e gli oggettualismi nuovi, sui quali Bendini non può non far pensieri, valgono da reagente. A patto di poter, appunto, riportare tutto al proprio privatissimo rovello, alla questione dell’apparenza, dell’apparire dell’immagine, del corpo: un corpo che può ora esser cercato al punto di contraddizione tra il piano d’esperienza ordinario e la trasfigurazione sensibile, memoriale, simbolica, che avviene allo strato dell’arte.
Del corpo, dunque, l’identità possibile, che sia insieme fissazione dell’altro e interrogazione di sé alimentate ancora da una volontà di significare, di contaminarsi agonisticamente con la vicenda del mondo, e, soprattutto, di scavare senza remora senza pietà l’infinito e il vuoto beckettiano della condition humaine: “ce sont des mots, il n’y a que ça, il faut continuer, c’est tout ce que je sais, ils vont s’arrêter, je connais ça, je les sens qui me lâchent, ce sera le silence, un petit moment, un bon moment, ou ce sera le mien, celui qui dure, qui n’a pas duré, qui dure toujours, ce sera moi, il faut continuer, je ne peux pas continuer, il faut continuer, je vais donc continuer, il faut dire des mots, tant qu’il y en a, il faut les dire, jusqu’à ce qu’ils me trouvent, jusqu’à ce qu’ils me disent, étrange peine, étrange faute, il faut continuer”, si legge nell’Innommable: “ils m’ont peut-être porté jusqu’au seuil de mon histoire, devant la porte qui s’ouvre sur mon histoire” (17).
Forse Bendini avverte che la pittura, la pittura sola, può peccare dell’orgoglio del proprio essere altra, e non basti a dire con probabilità, a cogliere e forzare il diaframma sostanza/apparenza su cui si basava non solo il patto rappresentativo d’un tempo, ma anche l’avventura d’autonomia libera di senso della modernità. E il sentirsi dell’artista è sentirsi ora, in modo più dilaniante, coscienza di storia.
Egli avverte che non dismesso, bensì rifondato deve essere il rituale dell’arte: e calato con ancor più acuminata determinazione nel sacrato stesso cuore degli atti, degli spazi, delle motivazioni, dei segni. Senza i teatralismi testimoniali da sacerdote o sciamano che pure rinnovate e non banali suggestioni antropologiche inducono all’arte europea: ma con la microemotività, lo scrutinio privatissimo e silenzioso – e non perciò marginale, né meno radicale: ché anzi, in questo suo ritrarsi all’ammirazione, l’evento plastico si fa domanda non facoltativa – che ancora dal magistero anche etico di Morandi deriva a Bendini.
22 dicembre 1964. È la data dei Tre soggetti: data precisa, inaugurale, programmatica. Ove l’ambiguità è nell’indicare soggetti ciò che da sempre, e vieppiù le nuove frequenze critiche e teoriche, indicano oggetti. Cose nude assunte nella flagrante e cieca presenza al mondo; orfane di storia e funzione e si direbbe necessità: ma ritemprate di misteriosa essenza, di sostanza d’amuleto, dall’intensità e urgenza e vitalità incoatta dello sguardo di Bendini, che pone loro, con semplicità estremistica, domande estreme.
Note. 1. V. Bendini, La pittura si immagina, in Vasco Bendini. Venti disegni erotici, catalogo della mostra, Galleria Gianluigi Arcari, Mantova 18 giugno – 18 ottobre 1986; 2. G. Mathieu, Les Muses, in Le privilège d’être, Robert Morel, Forcalquier, 1967: “Ritrovare il nulla dei limiti della libertà a partire dalla quale tutto ridiventa possibile. In seguito le nozioni di premeditazione e di referenza a un modello, a una forma già utilizzata, si trovano definitivamente bandite”. Jean-José Marchand scrive di un “abstractionisme lyrique” nel catalogo della mostra “L’Imaginaire” alla Galerie du Luxembourg, Parigi, 1947. 3. È proprio Guidi a presentare la prima mostra di Bendini, con Luciano Ferriani, alla Galleria Bergamini di Milano (26 febbraio – 10 marzo 1949), dicendo che “essa aspira a essere in funzione del tempo” in nome di un “bisogno di rinnovamento non frettoloso ai margini di uno stanco europeismo”: nelle opere, forte è la poggiatura sul Carrà postmetafisico. Sull’opera di Guidi in quegli anni, Virgilio Guidi alla Saletta, catalogo della mostra, testo di C. Volpe, Saletta degli Amici dell’Arte, Modena, 1949; Virgilio Guidi, catalogo della mostra, testo di L. Mandelli, Galleria Circolo di Cultura, Bologna, 24 maggio – 11 giugno 1953: Virgilio Guidi, catalogo della mostra, testo di G. Kaisserlian, Galleria Pagani, Milano 1959; Virgilio Guidi. Mostra antologica, catalogo della mostra, testo di F. Arcangeli, Palazzo dell’Archiginnasio, Bologna, 18 dicembre 1971 – 30 gennaio 1972, Alfa, Bologna 1971. 4. F. Arcangeli, Vasco Bendini, in “Il Milione. Bollettino della Galleria del Milione”, 30 n.s., gennaio 1958. 5. Ho analizzato a fondo questo momento in L’ultimo Morandi, in Giorgio Morandi, catalogo della mostra, Museo dell’Ermitage, Leningrado, e altre sedi, Electa, Milano 1989. In questa prospettiva è essenziale la lettura di F. Arcangeli, Giorgio Morandi, Edizioni del Milione, Milano 1968. 6. E. Riccomini, Bendini disegni, Edizioni dell’Attico, Roma 1965. 7. Riprendo qui come in altre parti di questo testo, variamente rielaborandoli, i miei precedenti Percorso di Bendini, in Vasco Bendini. Opere storiche. Opere recenti. L’opera su carta, catalogo della mostra, Galleria Civica, Modena, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna, Galleria Civica di Arte Contemporanea, Trento, 1992, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1992; Bendini: 1965-1993, in F. D’Amico, F. Gualdoni, Bendini, (continua), Roma 1993; Vasco Bendini. Un mondo al limite, catalogo della mostra, Civica Raccolta del Disegno, Salò, 15 novembre 1997 – 8 gennaio 1998, Nuovi Strumenti, Brescia 1997; Vasco Bendini, catalogo della mostra, Civica Galleria d’Arte Contemporanea, Lissone, 18 gennaio – 23 febbraio 2003. 8. R. Pallucchini, Vasco Bendini alla Saletta, catalogo della mostra, Saletta degli Amici dell’Arte, Modena, 28 aprile – 8 maggio 1956. 9. F. Arcangeli, 1958, cit. 10. F. Arcangeli, Una situazione non improbabile, in “Paragone”, VIII, 85, Firenze, gennaio 1957, poi in F. Arcangeli, Dal romanticismo all’informale, II, Einaudi, Torino 1977. Ho tentato un bilancio complessivo della vicenda in Naturalismo padano nella collezione Boschi – Di Stefano, catalogo della mostra, Civica Galleria d’Arte Contemporanea, Lissone, 28 settembre – 7 dicembre 2003. 11. M. Calvesi, Bendini nell’informale, in F. Arcangeli, M. Calvesi, Vasco Bendini, Edizioni dell’Attico, Roma 1964. 12. E. Riccomini, 1965, cit. 13. M. Calvesi, 1964, cit. 14. A. Emiliani, Vasco Bendini, Edizioni Alfa, Bologna 1960. 15. La vicenda è ricostruita in F. Gualdoni, Vasco Bendini. Litografie, catalogo della mostra, Galleria Mazzocchi, Parma, dicembre 1995, Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, 1996. 16. M. Calvesi, Vasco Bendini, in “Commentari”, X, Roma, gennaio – marzo 1959, poi in M. Calvesi, Vasco Bendini, Edizioni Lo Spazio, Napoli 1979. 17. S. Beckett, L’innommable, Éditions de Minuit, Paris 1953. “Sono parole, non c’è che questo, bisogna continuare, è tutto quello che so, loro stanno per fermarsi, conosco la cosa, le sento che mi abbandonano, ci sarà il silenzio, un breve momento, un buon momento, o sarà il mio, quello che dura, che non è durato, che dura tuttora, sarò io, bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, allora continuo, bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino a quando esse mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare, forse è già fatto, forse mi hanno già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, davanti alla porta che s’apre sulla mia storia”.