Arcangelo
Arcangelo. Fare corpo, fare luogo, in “La Ceramica”, 23, Milano, dicembre 2014
Da sempre Arcangelo ragiona en peintre, ma implicando il proprio fare in un senso originario della materia, della sostanza, che più e più volte l’ha condotto a una pratica plastica contaminante e contaminata.
È la qualità stessa del suo sentirsi profondamente mediterraneo, che gli ha consentito anche di misurarsi in modo fervido con le culture sorgive dell’Africa nera in serie operative ormai celebri.
Negli anni Arcangelo ha affinato il proprio istinto di calarsi nell’intimità della materia sino a risentirne le energie, le facoltà emanatrici e le vocazioni di senso, operando per flussi continui di condensazione e coagulo, per formazioni corporee impreventive e impure.
Secondo la lezione che deriva dalle pratiche dell’art brut e dell’arte di suggestione antropologica, ma nella piena libertà della Wildheit che è stata il portato maggiore della sua generazione, egli assume energia espressiva dal “fondo e non dai luoghi comuni dell’arte classica e alla moda”, secondo le parole illuminate di Dubuffet, per cui “assistiamo all’operazione artistica pura, spontanea, reinventata in tutte le sue fasi dall’autore solo a partire dalle sue pulsioni”. Del resto, di una “diffidenza nell’atteggiamento fondamentalmente positivistico del pensiero occidentale” ha scritto, ragionando di Arcangelo, Andrea Jahn.
Non d’inconsapevolezza, autentica o simulata, certo, si sta dicendo per l’artista, ma di un processo di immedesimazione profonda rimontante a una condizione che verrebbe da dire preformale, ovvero non procedente da codici accertati e saputi, bensì dallo struggle radiante della formazione.
Ovvero, l’artista risente e assapora nel proprio stesso corpo una tensione biologica al fare la cui consapevolezza procede di pari passo con il processo, non orientandolo ma mantenendolo sempre su un piano di lucida verifica critica d’ogni passaggio, d’ogni bivio di scelta. Il suo non è in altri termini, per usare un’espressione cara a Francis Ponge, un “arranger les choses”, ma un processo insieme agonico ed erotico in cui l’espressione si trova, e si comprende nel momento stesso del trovarsi.
Più e più volte Arcangelo ha, s’è detto, incrociato la vita formale delle materie. Negli anni ’80 erano stati la potente Coltivazione di granturco e gli Altari a dire della sua inclinazione a concepire, oltre la convezione pericolante del rettangolo pittorico, l’identità specifica del luogo, e l’implicita monumentalità, quella sorta di avvertibile aura sacrale, delle forme appena manipolate. Un’aura sacrale, una sorta di solennità introversa, che si leggeva anche nelle Montagne sante e nei Miracoli, in un percorso che si è esteso in seguito alle Anfore e agli Orti. Sono stati memorabili, da questo punto di vista, gli allestimenti di mostre come “Sarcofago, anfore, tappeti persiani” da Lorenzelli, 2000, e “Da terra mia” da Marcorossi, 2013, per il rapporto teso e necessitato tra forme plastiche e superfici pittoriche, per la conquista tanto fisiologica quanto psicologica dello spazio.
Era un destino inevitabile che Arcangelo approdasse a una pratica continua e specifica della terra, frutto anche di un incontro che mi piace pensare predestinato con il percorso di ricerca di Laura Borghi.
Il suo fare primario, quello per cui, evocando André Leroi-Gourhan, “l’artista esercita attraverso le forme una funzione simbolizzante”, lo ha portato a ragionar facendo, sino alle scaturigini, intorno alla terra: o meglio a quella che Gaston Bachelard ci ha indicato come “pâte première” – terra, acqua, aria: poi, postilla Erri De Luca, “lo scultore accosta il fuoco, che rapprende invece di sfasciare, asciuga invece di arrostire”.
Nella serie di pezzi recenti è davvero un fare corpo, quello di Arcangelo, e insieme un fare luogo. La sua facoltà mitopoietica, l’umore ombroso e mobile del suo trovare, trama situazioni plastiche di narratività rattratta, concentrata, talora solo intuita in nuce e lasciata lì, a crescere nel nostro sguardo e nel flusso emotivo che ne viene innescato.
È materia colore, aspra e fisicamente assertiva, che s’impregna e s’incrosta di sovrapposizioni di colore portato, come per amplificazione sensibile e sottile contraddizione.
Arcangelo non affattura la formazione con movenze di stile, men che meno con bellurie di tecnica. Tocca con intensità e irruenza, con sprezzatura assoluta, lascia che l’immagine affiori sino alla sua chiave simbolica prima, presenza ancor prima che evidenza.
Trent’anni fa i suoi lavori s’intitolavano Terra mia. Ora, quell’idea antropologica e biografica di terra è tutta implicata in questa materia, e nel senso potente che emana dai corpi che ne scaturiscono.