Igor Mitoraj, catalogo, Galleria Tega, Milano, 11 aprile – 30 maggio 2002

Moderno e antimoderno sono parsi, per il trascorrere tutto del secolo appena chiuso, gli unici estremi problematici possibili della pratica d’arte: quasi che, carsicamente ma in maniera assai tenace, si fosse creata una sorta di reciproca necessità agonistica, capace non solo di garantire entrambi – e a ben vedere, con essi il sistema intero dell’arte – ma anche di agire come conventio ad excludendum di ogni altra opzione possibile.

Imperativo è stato l’être absolument moderne, tanto quanto il rappel à l’ordre: il nuovo come valore in sé, la tradizione come valore in sé: quasi che nulla, fuor di questo perfetto oscillare della mondanizzazione possibile, potesse aver sensatamente luogo.

Mitoraj, Torso di Ikaro, 2002

Mitoraj, Torso di Ikaro, 2002

Eppure. Come leggere davvero De Chirico e Strawinskij, o Maillol e Savinio, se non come percorsi di lateralità, deriva e deroga sottilmente intellettuale, dalle idées reçues di forma e difforme, di reale e irreale, eccetera? Allo stesso modo, e venendo al nostro argomento, come pensare il viaggio ormai pluridecennale di Igor Mitoraj entro una sorta di trasognato ma già doppiato intellettualmente, e tenuto all’orlo della mise en abîme, apparato classico d’icone e maniere?

Mitoraj assume con enfasi calcolata il nostro apparato di sedimenti di memoria (con retrogusti di nostalgia) del passato, quella emulsione dolce e a sua volta in lieve deriva, in cui il greco e il romano, ma anche l’orientale e certe stereometrie d’art nègre, son ridivenute, com’era nell’Ottocento, l’antico. Ovvero, non affronta la ratio del classico, ma il luogo comune della nostra aspettativa.

Su tale schema iconografico egli prende ad attuare una sorta di continua, minuziosa, criticissima, scrutinante operazione di contaminazione: il nostro sguardo viene avvinto da un’idea del classico, si rende disponibile e confidente, e subito s’impania in un gioco continuo di spostamenti, sottrazioni, squilibri, dissonanze: ovvero, trova interrogazioni, domande, dubbi, laddove proiettava certezze che si rivelano pericolanti, quando non fantasmi di coscienza.

Non solo, e non tanto, per quel giocare di Mitoraj – come altri nel secolo, beninteso: penso ad esempio al Marino del Ritratto immaginario – alla poetica del frammento, del non finito, della frattura, per cui la sua forma si offre in perfezioni orfane di compimento. Soprattutto, perché ciò che assume, in seconda e più cautelata lettura, valore centrale nell’esperienza estetica delle sue opere, è quel loro incoercibile ruolo di doublure, di rimando continuo ad altro, quasi che il senso, più che trovare dimora, continuamente ne vivesse il disagio.

Si guardino, di questa mostra, opere come il Torso in travertino, e si pensi alla materia non come citazione ma come inganno, o quanto meno scacco del senso. Si guardino l’Annunciazione, oppure la Coppia reale, e ci si avvedrà che il meccanismo primo dell’identità, la radice stessa profonda della referenza, vi agiscono come matter di ragionamento plastico anziché come postulati. Maschere, sempre, sono. Maschere che valgono doppio del volto di sé, e del volto dell’altro, ma anche della scultura che con pari pertinenza evocano: maschere di maschere, nel teatro infinito delle parvenze che, riverberando, produce rêverie.

Come avviene, analizzando, il meccanismo del riconoscimento, dell’evocazione e dello scacco? Il Centauro è là, orgoglioso in apparenza d’una forma e d’un piedistallo che lo rende, già, proiezione monumentale. E c’è Olimpia, ma c’è anche Savinio, l’icona e la metamorfosi intellettuale, l’identità in cerca di stabilità e la continua alterità del trascendimento. E la Medusa è tanto il mito, quanto la remitizzazione di Caravaggio, e quella ulteriore fatta gioco della mente da Roger Caillois, in un teatro di rimandi che s’accelera sino al cortocircuito, e da esso trae l’energia del picco intellettuale ed emotivo.

E quanto Hypnos lascia scorrere, entro di sé, di quelle demeures d’Hypnos con cui Patrick Waldberg titolava uno dei saggi più memorabili sulla cultura del surreale?

Non di citazioni, beninteso, e men che meno di giochi cerebrali attuati a freddo da Mitoraj, si tratta. Davvero la sua coscienza è così. E’ coscienza complessa e interrogativa, che decide di calarsi pienamente, e con plenitudine di fasto sensuale, nelle avventure della forma, negli spettri dell’iconografia, perché ne siano verificati i barbagli, e le sottrazioni, e gli sdoppiamenti, non come fantasmi meri della mente, ma del corpo delle immagini.

Ed è una coscienza capace di ridivenire, nel filo ininterrotto delle prove, delle seriazioni brevi o lunghe del suo operare – anche l’iterazione del motivo diviene, in lui, ragione di spostamento e deroga continua – e degli interni rimandi, energia inventiva, facoltà di creare corpi ulteriori d’immagine, tra sembiante e accelerazione fantastica.

Quanto l’identità, convenzionalmente visiva, della forma, sia il falso bersaglio di un ben più sottile ragionamento sull’identità dell’individuum plastico, è suggerito per confronto dalle pitture della serie Ikaro e dalle grafiche ad esse congeneri. Lo strato della materia, materia aspra e opaca tanto quanto, al fondo, tutt’altro che inerte nella sua tempra sensuosa, si scava della crescenza d’immagine come per generazione faticosa, quasi un avvenire di forma che è formarsi, non formato. Non esiste in altri termini qui, come non esiste nelle opere scultoree, forma e identità di forma che sia e possa dirsi preventiva all’avvenire in materia.

La démarche problematica di Mitoraj è questa, in fondamento questa: ciò che tu vedi è sì l’evocazione fantasmatica della forma già conosciuta, ma in un processo di formazione che, all’origine e nel proprio processo, si dà come totalmente altro, che vi immette un profondo e dolcemente velenoso germe contraddittorio.

Questo dice, tra l’altro, in scultura, l’irritarsi drammatico delle sue superfici – particolarmente avvertibile nella sequenza dei rilievi, con quegli aggetti che paiono affioramenti – le quali non conoscono mai, a ben vedere, la politezza funebre del progetto di perfezione, ma sempre il crepitare della fluenza, che si traduce in temperatura d’incidenza luminosa sulla pelle, sia essa il bronzo o una pietra.

Forse, per stare al gioco delle citazioni, non c’è Parnaso nell’animo di Mitoraj, e men che meno il desiderio di Pigmalione. Piuttosto, vi risuona il lavorio drammatico della nascita della forma, come nell’officina di Ares, come nella bottega aristocratica del faber d’ogni tempo.