Scanavino. L’immagine necessaria, catalogo, Arte & Arte, Bologna, novembre 2002

L’apparizione di Emilio Scanavino sulla scena milanese, con una personale alla galleria del Naviglio nel 1955, coincide con il momento di massimo picco dell’esperienza spazialista. Com’è per tutti i compagni di via di quella vicenda, per i quali il magistero di Lucio Fontana vale più da riferimento carismatico che strettamente concettuale o modale (1), nella sua formazione concorrono moventi plurimi, dalla prioritaria lezione surrealista a un’attenzione all’art autre di largo spettro, svariante dalla macerazione plastica e cromatica di Giacometti ai sovratoni gestuali di Cobra.

Scanavino, Composizione, 1957

Scanavino, Composizione, 1957

Nel pittore ligure, tuttavia, sin dall’inizio è schiarita la vocazione a far grumo espressivo dell’opera un senso drammatico, non preordinatamente oscuro e metamorfico, della generazione formale; una sorta di sacralità stupefatta del nascere che si fa impronta, scavo, collisione talora e altrimenti nervatura, del segno nella materia. Non è un caso che, sin da quell’esordio milanese, egli affianchi alle pitture delle terrecotte, quasi zolle di dimessa e anestetica presenza sulla cui pelle la punta traccia e trama andamenti crudi e radianti, equivalenti delle linee-forza distoniche che parimenti incidono le alte paste delle pitture. Le pitture sono, a loro volta,  materie piene, sostanziate, colte nella fase in cui il colore si dà malcerto e disagiato, prima del carattere, ma già intesse probabilità di forma organica, di corpo pittorico.

Scanavino esplora, ora, una sorta di naturalità attinta a uno stadio di destino sorgivo, solcata da atmosfere luminose in cui senti il conterraneo di Magnasco e l’innamorato di Bacon e di Matta, volto a una sorta di ritualità introversa dell’immagine: “Tu non sai  la gioia che provai la prima volta che presi una lastra d’argilla e la riempii d’impronte e di segni – dichiarerà Scanavino –. Quasi una forma di preghiera. La pittura come forma di preghiera” (2). Proprio su valore di questo lucore insiste Giani presentandolo nel 1955: “Si tratta di un vero linguaggio luministico; e forse anche di meravigliose vicende di luce nella terra, di luce nello spazio, di luce sulle cose, pronta a scomporre con acutezze e spezzature una forma plastica che riassume così in sé medesima ed offre agli altri un momento fatale di energie prese dalla natura, ove si insinua il guizzo nervoso della sua fantasia” (3).

Scanavino, Immagini, 1958

Scanavino, Immagini, 1958

Matura in Scanavino, in quel crinale di decennio, una versione sempre più marcatamente organica, d’un biomorfismo oscuro e lacerato beninteso, del già problematico modo informale. Lo spazio come campo cromaticamente neutralizzato e posto in attesa, reso in dominanti di grigio intrise di tono sottile, si fa ambito di un aggregarsi e crescere di nuclei di segno i quali, ora scavati ancora, ora apposti, tramano nascite e dissoluzioni di forma. Il segno si fa, dunque, anche agonicamente protagonista del processo rispetto alla stesura, ora smagrita, talora sino al dilavamento, alla sindone, nella pura frequenza atmosferica di luce. Molti vedono, in questo momento, in questa  “natura sensibile e quasi scontrosa” (4) un compagno di strada naturale della nuova arte di nucleo e di gesto che, in plurime ma affini accezioni, vanno declinando raggruppamenti come quelli raccolti, tra Parigi e Milano, intorno a riviste come “Phases” e “Il Gesto”: non è casuale che, in quello stesso 1955, la milanese galleria Schettini organizzi la grande mostra “Il Gesto”, a radunare e lumeggiare la schiera internazionale d’artisti che opera in tal senso (5).

Da qui, da questo ambito variegato d’esperienza, Scanavino prende a muoversi con ancora maggior certezza nel proprio scrutinio organico della generazione formale, sino a strutturare lo spazio in trame che valgono geometria originaria, architettura elementarissima, e insieme possibilità di racconto, come per consecuzioni di scene che siano fasi, intimamente connesse, del flusso formativo. Nasce, a fianco di queste pitture, la consapevolezza di una autonoma forte vocazione disegnativa che sempre lo accompagnerà, e che si manifesta nei fogli folgoranti per un “à quatre mains” proprio con Edouard Jaguer, il vessillifero di “Phases”: La nuit est faite pour ouvrir les portes, 1957, è, tra i libri d’arte, pietra miliare del decennio (6).

Ecco, dunque, una sorta di narrazione interna, introversa, in cui è ben vero che agisce “il segno in quanto pura forma, destituito della sua semanticità convenuta, secondo l’insegnamento dell’informale” (7), ma ancor più netto l’umore simbolico dell’immagine nascente, il valore suggestivo e vocativamente formativo di quei grumi fratti, contratti come crampi d’anima, in nome di una “rassegnata drammaticità: ciò che si compie contraendo il grido e convertendo lo spazio in cui esso si tende con le sue aguzze delineazioni” (8). “La pittura è una preghiera, non si fanno segni se non sono essi a farsi, non si creano immagini se non sono immagini loro stesse” (9): così, ancora, Scanavino, a ribadire il valore di rituale atavico della pittura: non liturgia di modo – e perciò, soprattutto, lontanissimo dalle sempre più evidenti accademie di gesto segno materia, dal bon ton informale – ma atto davvero primario, non mediatamente connesso a un dramma emotivo, non soprattutto vincolato a una idea cogente e retorica di stile (10).

Scanavino, Presenza, 1956

Scanavino, Presenza, 1956

Si è giustamente insistito sul valore cruciale rivestito dal telero Alfabeto senza fine, 1957, vera e propria apertura allo Scanavino dei decenni successivi (11), quasi a schiusura dell’orizzonte in cui agiranno le compagini dei signes autres,  facenti riferimento a “L’esperienza moderna” di Novelli e Perilli o allo storico numero 3 de “Il Gesto” di Baj, Dangelo e Manzoni. Tuttavia la misura dell’artista non è quella della scarnificazione del grumo formale in alfabetico, bensì dell’identificazione e scrittura del momento primo di generazione dell’immagine, una sorta di complesso e non cautelato à rebours rimontante a un segno che si sappia effettivamente primario. “Ciascuno di questi ideogrammi corrisponde ad un istante innominato del pensiero, e non significa, letteralmente, che questo istante: la traccia unica di questo istante” (12): così, acutamente, Jouffroy. E’ la Biennale del 1960, in cui la presenza di Scanavino, con grandi tele quali Come fuoco nella cenere (13), così come quella di Peverelli (14), dicono d’una alterità effettiva di taluni dalle linee portanti del dibattito italiano, a ribadire che il valore di nascita/morte, di storia metafisicamente rappresa, di spazio come architettura del formarsi, scena quasi d’un narrare contratto allo spasimo nei nuclei primi, è la vera ragione della pittura dell’artista. Da questi dipinti, d’altronde, e da quelli non meno straniati di un Bendini, nascono ipotesi critiche come quella esplicitata, in quello stesso 1960, in Possibilità di relazione (15).

Non è un caso, dunque, che Scanavino scelga di non percorrere la via, sicuramente fruttuosa in termini di riconoscimento mondano, della pittura à signes a propria volta in via d’accademizzazione, ma di lavorare a un luogo strutturale della forma, a una geometria non bigotta non ideologica dell’immagine, ma nascente dalla sua stessa forza generativa. Ancora, certo, la formazione si svolge come in rattratto pudore del colore (“Non ho da offrire colori, posso solo tentare di trattenere questo nero che cola” (16)), ma si colloca, verrebbe da dire, a un grado ulteriore, concettualmente consecutivo, di maturazione dell’evento iconografico: non più il suo forzare la materia caotica dell’inizio, ma il suo pretendere spazio e dimora, il suo cadenzare e decidere in pienezza. Alla Biennale del 1966 (17) tale ulteriore evoluzione di Scanavino trova la propria maturazione. Ancora è un ciclo, uno svolgersi per capitoli d’una temporalità ora più cadenzata ma non meno sospesa e interna; una sequenza di eventi in cui la geometria, nel collidere e coincidere di valori curvilinei, a cominciare da quello, ad altro gradiente simbolico, del cerchio/uovo/nucleo, e rettilinei, marcanti un dentro e un fuori, un dove della nascita di forma, trova una ragione non eterodossa.

“La geometria è un illusorio controllo della vita” (18), avverte ancora Scanavino. Non l’arroganza della struttura, ma lo scheletro ripensabile della forma naturata, egli va ritrovando nella sue matasse di segni, nelle testure fitte ad assediare la visione, a ragionare d’un lògos improbabile. Oppure, una sorta di ambito convenzionale e contraddicibile dalla formazione stessa dell’immagine, sia esso la ripartizione in cellule ortogonali della tela, sia la cornice rettangola, siano le numerose lunette in cui la movenza curvilinea ambisce a stabilità e trova deroga, contraddizione, metamorfosi. Su queste prove Scanavino elabora pittura per tutta la sua stagione ultima, fervida, talora in odore d’ossessione: ancora, un corpo a corpo che egli sa mortale con l’arroganza della forma preventiva, in nome dell’immagine necessaria.

Note 1. In generale, G. Giani, Spazialismo. Origini e sviluppi di una tendenza artistica, Edizioni della Conchiglia, Milano 1956. Sulla vicenda milanese, F. Gualdoni, Spaziali a Milano, catalogo della mostra, galleria Arte & Arte, Bologna, 2001. 2. G.M. Accame, Scanavino. Disegni e scritti inediti, Pierluigi Lubrina, Bergamo 1990. Una raccolta di testi e dichiarazioni dell’artista è anche F. Vangeli, Scanavino, Punto e Linea, Milano 1986. 3. G. Giani, Emilio Scanavino, catalogo della mostra, galleria del Naviglio, Milano, 1955. Cfr. inoltre F. Gualdoni, Emilio Scanavino. La scultura, la ceramica, catalogo della mostra, Valente arte, Finale Ligure, 1989. 4. A. Martini, Scanavino, catalogo della mostra, galleria del Naviglio, Milano, e galleria del Cavallino, Venezia, 1961. 5. Alla mostra è dedicato l’intero fascicolo de “Il Gesto”, n. 2, Milano, giugno-luglio 1955. 6. La nuit est faite pour ouvrir les portes, six poèmes d’Edouard Jaguer, commentaire graphique de Scanavino, Edizioni Schenone, Genova 1957. 7. P. Bonfiglioli, Scanavino, catalogo della mostra, galleria De’ Foscherari, Bologna, 1966. 8. U. Apollonio, Emilio Scanavino, in XXXX Biennale di Venezia, catalogo della mostra, Venezia, 1960. 9. G.M. Accame, Scanavino. Disegni e scritti inediti, cit. 10. Sullo stile di Scanavino insistono soprattutto le letture, regolari negli anni, di G. Ballo, del quale cfr. soprattutto Scanavino, Cappelli, Bologna 1960. Il termine va peraltro inteso nella prospettiva storica, come piena consapevolezza agente, opposta alla nozione di cecità gratuita degli atti prevalente allora in certe vulgate mediocri dell’informale. 11. Cfr. in particolare G.M. Accame, Scanavino. Evocazione e presenza, catalogo della mostra, Villa Croce, Genova, Mazzotta, Milano, 1987; Idem, Scanavino. La coscienza di esistere, catalogo della mostra a Pietrasanta, Cesena, Reggio Emilia, Grafis, Bologna, 1994. 12. A. Jouffroy, Scanavino, Editions G. Fall, Paris 1973. Cfr. inoltre, su questo punto, l’illuminante R. Sanesi, Scanavino, La Nuova Foglio, Macerata 1979. 13. Su questa stagione cfr. in particolare F. Gualdoni (a cura di), Emilio Scanavino. Opere 1954 – 1962, testi di F. D’Amico, W. Guadagnini, E. Crispolti, catalogo della mostra, Galleria Civica, Palazzina dei Giardini, Modena, 1990. Fondamentale è naturalmente G. Graglia Scanavino – C. Pirovano, Scanavino. Catalogo generale, 2 voll., Electa, Milano 2000. 14. Peverelli espone il ciclo La Dimora, con un testo di presentazione di A. Jouffroy: il critico di lì a poco pubblicherà, su Scanavino,  La question S., Editions Phantomas, Bruxelles 1962. Sulla Dimora cfr. inoltre J. Selz –  E. Tadini, Peverelli, Editions Galerie du Dragon, Paris 1960. 15. Possibilità di relazione, testi di E. Crispolti, R. Sanesi, E. Tadini, catalogo della mostra, galleria L’Attico, Roma, 1960. 16. G.M. Accame, Scanavino. Disegni e scritti inediti, cit. 17. XXXIII Biennale di Venezia, catalogo della mostra, Venezia, 1966: Scanavino è presentato da G. Ballo, il quale sottolinea il valore di misura umana e insieme simbolico (della sfera, soprattutto) nella proporzione rinascimentale citata dall’artista  18. G.M. Accame, Scanavino. Disegni e scritti inediti, cit.