Enrico Baj. Bambini, ultracorpi & altre storie, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, 24 settembre – dicembre 2013

E all’improvviso ecco Baj, con quei “fondi compressi di nobile materia sulla quale si avverte quasi il peso di nuovi corpi carichi di energia, luci che sanno di neon, surreali arabeschi di colore incandescente e colante, che sembra autodisintegrarsi anziché obbedire alla stesura delle solite e talvolta amorose mani dell’uomo. Tale reazione costituisce palpitante testimonianza dell’esperienza atomica nei suoi riflessi sul mondo sensibile”: così Dino Fabbri.

Baj, Bum. Manifesto nucleare, 1952

Baj, Bum. Manifesto nucleare, 1952

È il novembre 1951 e i giovani Enrico Baj, classe 1924, e Sergio Dangelo, addirittura classe 1932, aggiungono l’arte nucleare a un clima di dibattito già ferventissimo. In discussione è il confine, tecnico ed espressivo, dell’arte. Fontana va dicendo di arte spaziale e di “una nuova coscienza, tanto che non occorre più rappresentare un uomo, una casa, o la natura, ma creare con la propria fantasia le sensazioni spaziali”.

Non è questione di astrarre, non è questione di informalismo, è molto di più. È ragionare sullo spazio/tempo fuori dall’esperienza ordinaria, su un valore di infinito che non è più concetto filosofico suggestivo ma realtà smisuratamente concreta. Ed è avvertire, nella materia e della materia, non il ruolo d’ancella disciplinata ma l’interna tensione generatrice, la vocazione a spinte plurime e all’apparenza cieche alla formazione, alla modificazione, alla metamorfosi, ove il differenziale tra forma e caso risieda solo nel punto di vista, nel grado di intuizione profonda e di coscienza del reale.

Baj è avvocato (non per vocazione, ma per un caso tipico di compromesso con le aspettative della solida famiglia borghese in cui nasce: contemporaneamente ha frequentato l’accademia a Brera), e all’arte non può dedicare ancora il tempo che vorrebbe. Ma è dotato, oltre che d’una formazione culturale solida, di una curiosità vorace, di una brillantezza intellettuale che gli consente di dipanare non solo i fatti concreti dell’arte, ma anche il loro contesto situazionale e mondano. Perciò sa da subito, prima ancora che la sua pittura trovi un orientamento convinto, che costituirsi in movimento, lanciare manifesti, creare una rete di solidarietà complici e scegliersi nemici di qualità, è non meno essenziale. Scriverà anni dopo, nel suo à rebours biografico, che “sponsor est suae quisque picturae!!!”, perché “il mestiere del pittore consiste anche nel saper fare tutto quel che precede la creazione del quadro e quel che segue”.

Baj, Figura atomica, 1951

Baj, Figura atomica, 1951

Il modello pittorico più vicino è quello di Gianni Dova, conosciuto a Brera, considerato allora il seguace più prossimo di Lucio Fontana, dunque il vero talento spazialista: giusto un mese prima del debutto di Baj e Dangelo una personale alla galleria del Milione ne ha mostrato tutte le qualità. E certo, nelle prime opere di Baj, quel coagularsi di sagome oscure che paiono aggallare da un caos materiale indistinto come in Figura atomica, 1951, in un clima visivo dai lucori straniati, mostra che la pittura dell’amico è riferimento essenziale. Che proprio Dova, insieme a Fontana e a Giorgio Kaisserlian, critico attento e anima artistica del San Fedele, partecipi al dibattito organizzato in occasione del debutto espositivo, è dunque nell’ordine delle cose, per ragioni d’interlocuzione intellettuale e insieme d’avallo avanguardistico.

Mentre si pone in cerca della propria autentica vocazione espressiva Baj lavora assiduamente alle sorti del movimento nucleare. Dangelo si sposta a Bruxelles, e subito ne nasce una mostra, marzo 1952, alla Apollo, che è l’occasione per la diffusione del Manifeste de la peinture nucléaire. Un mese dopo ecco “Arte nucleare” e le “Proiezioni nucleari” agli Amici della Francia a Milano, in cui inizia l’espansione del gruppo, a cominciare da Joe Colombo, futuro geniale designer, per via di adesioni e di proselitismo, e la presentazione dell’inquieto e fiammeggiante Manifesto BUM.

L’atteggiamento del movimento è baldanzoso e, naturalmente, provocatorio: meglio, indifferente a ogni bon ton culturale. Nel volgere di un lustro la trama degli incontri – Asger Jorn, Édouard Jaguer, Arturo Schwarz, E.L.T. Mesens, Raoul Hausmann su tutti – tesse una trama di riferimenti e di amicizie in cui la tradizione surrealista e, più, l’esprit dada trovano in Baj un cultore e un interprete innovativo di primissimo ordine, una sorta di antiepigono per eccellenza. La dimensione e l’ordine di riferimento è, questa è un’autentica novità per l’ambiente italiano, fisiologicamente internazionale. “Il Gesto” nasce nel 1955 per specchiamento con la parigina “Phases”, a completare il protocollo manifesto-gruppo-rivista consolidato dall’avanguardia storica e proseguito fervidamente proprio nell’ambito dada-surrealista, che Baj considera l’unico riferimento intellettualmente fertile.

Né manca il versante di nuova bohème in odore d’esistenzialismo, quello che vede Baj, Dangelo e Colombo protagonisti delle caves milanesi, l’Arethusa, il Santa Tecla, il Mocambo, la Taverna Mexico, lo Shangai, con i loro interventi decorativi proliferanti e straniati.

Baj, Montagna, 1957

Baj, Montagna, 1957

Ma da subito, dal 1952, Baj intuisce anche, per citare parole dell’amico Jorn, che “essere artista significa essere un individuo isolato”. Per lui essere il laicissimo monsignore dell’arte nucleare è necessario, vivere all’epicentro di una trama eccitata di rapporti, incontri, occasioni, situazioni, è inderogabile: la mente si deve sovralimentare continuamente: a patto poi di tutto filtrare, tutto riportare a una diversa, solida, necessaria condizione espressiva.

Non c’è posa en artiste, in Baj, non c’è blague. Antiretorico all’estremo, vero anarchico borghese cresciuto nel culto di Alfred Jarry, Baj vuole giocare il gioco dell’arte sino a dissolverne le regole, per lacerarne nel modo più caustico e inappellabile il velo di falsa coscienza, a cominciare dal fare come ben fare e dall’estetica midcult come forma insinuante e velenosa di kitsch.

Il sovratono espressivo concitato, l’eccesso e la deroga formale che verrebbe da dire, giusta la celebre dedica di Zola a Flaubert, “in odio al gusto”, proclamano con crudezza tutto ciò che la pittura non può più essere, anche se non è ancora del tutto chiaro cosa possa diventare.

Certo, Kaisserlian scrive che “la materia ha più immaginazione di noi” e di un  “mondo in cui la materia diventa energia che si riproduce indefinitamente”; Beniamino Dal Fabbro afferma che a un pittore nucleare va chiesto “un tappeto di allucinazioni, una zona occulta di ricordi dimenticati e di presagi ingiustificati, o un delirio molecolare intramezzato da passaggi di comete ancora anonime”, e che Baj va inoltrandosi in “un nuovo Eden carbonioso e maledetto, un Paradiso immerso nei negri vapori dell’Inferno”.

Ma è certo che il dettato nuclearista in quanto tale importa solo latamente a Baj. Osserverà acutamente Jaguer nel 1956 che “quel manifesto divenne una bolla d’aria, o, diversamente considerato, un trampolino notevolmente elastico da cui ci si possa lanciare verso una concezione della pittura largamente aperta a tutte le dialettiche formali”.

Da subito nella sua pittura si insinua prepotente la riflessione sulla figura. Figura, cioè lo schema iconografico sorgivo, il codice antropomorfo in grado di farsi visione a prescindere da ogni referenza, da ogni clausola di somiglianza, come per affioramento atavico del senso radicale dell’identità. La cultura del surreale ha generato Klee, Dubuffet e Wols, Jorn e Appel, ovvero, per dire proprio con Dubuffet, coloro che hanno scelto di rimontare “all’operazione artistica pura, spontanea, reinventata in tutte le sue fasi dall’autore solo a partire dalle sue pulsioni”.

Vaccinandosi contro i saputi della cultura artistica, da subito Baj intuisce, più che figure dotate d’un destino formale, concrezioni figurali scaturenti per spinta energetica dalla materia, il cui dramma è il dramma stesso del costituirsi, dell’apparire: e dell’essere.

Sono, dapprima, bambini, annunciati già da quadri come Quamisado II, 1951, ovvero lo stereotipo sommo tra gli stereotipi del rappresentare, il più sensibile sul piano psicologico e sociale. Sono volti e corpi che, in opere come Bambino magico e Testa solare, 1953, dicono d’un rapporto complesso, visionario, metamorfico proprio con l’idea stessa di immagine, della quale intuire una continua e allarmata ostranenie, lo spaesamento da sé. Le figure muovono da uno schema di rappresentazione ridotto ad artificio tutto mentale, a standard fantasticato, collocato al crocevia radiante tra simbolo e primarietà atavica.

Baj e Fontana, Composizione, 1959

Baj e Fontana, Composizione, 1959

Baj, che pure va orientando il movimento nucleare verso atteggiamenti di “prefigurazione”, in realtà già nel 1953 colloca la propria pittura su posizioni ancora ulteriori. “Prefigurazione” è la mostra che nel 1953 Enrico Brenna, già curatore del catalogo della mostra del 1951 al San Fedele, organizza per dar conto delle “prospettive del movimento di pittura nucleare”. La direzione è identificare una pars construens che sottragga la posizione nucleare dal sospetto di ogni sorta di aformalismo di bandiera. Questi artisti, egli scrive, “hanno voluto distruggere la pittura e si sono trovati in un mondo da incubo. Così, una volta disintegrata, tentano di ricomporre la pittura, ne ricercano i simboli e le ragioni di vita. Sono in una fase che diremo di prefigurazione e la loro materia prende una forma che, se non è ancora definita, lo è in divenire”. In particolare “le crude immagini di Baj vanno prendendo una forma umana”: ad esse non si “addice alcun consueto discorso su qualità formali, ma piuttosto sul movente e sul simbolo: e il rosso ritorna simbolo del sole, il nero e l’argento di morte”

In effetti la riflessione di Baj è, in questo tempo, ancor più profonda e affilata di quanto lascino intendere queste peraltro cospicue operazioni pittoriche. Dal 1952 egli ha avviato, in parallelo, l’elaborazione di una serie di illustrazioni all’acquaforte del De Rerum Natura di Lucrezio, il cui approccio si poggia criticamente sul segno del Picasso classico, e su un’iconografia asciutta e delucidata. L’edizione, voluta da Schwarz, uscirà solo nel 1958, ricca di trentasei tavole e di un testo di Roberto Sanesi: “Dopo le audaci affermazioni “nucleari”, ove però nelle tele sconvolte da un gesto che pareva voler giungere al limite d’ogni possibilità espressiva non era difficile scorgere la presenza – bruciata e rattorta – di una figurazione dolorosamente umana, Baj volle organizzarsi teoricamente più di quanto già non avesse fatto: per chiarirsi, e soprattutto per chiarire agli altri”.

Essa è annunciata nel 1955 da Les soleils de Baj, a quattro mani con Tristan Sauvage, cioè con Schwarz stesso. Ed è il poeta-editore ad annotare, a proposito di questa fase, che definisce esplicitamente “neo-classica”: “il primitivo disordine informale gradatamente perviene a organizzarsi, fino all’emergere delle presenze umane, sino alla storia dei rapporti tra uomo e donna, ai suoi giochi sociali (la musica, la danza, la toeletta) e alle sue tragedie (la guerra, la pestilenza, la morte), per narrare infine il disfacimento del tutto e il suo ciclico restituirsi al caos originario”.

Il Picasso che ragiona sul classico non intende accogliere e asseverare il primato della somiglianza, ma uno statuto autonomo d’immagine fondato sul canone formale che la storia ci ha consegnato: tra gli stereotipi e i modelli mentali possibili, il classico è il più tenace e ingannevole, perché il più accreditato a costeggiare la referenza sino a confondersi con essa. Proprio questo – il cliché, il codice, il valore di secondo livello dell’immagine in quanto citazione di se stessa – interessa Baj, il quale come tutti vede in Picasso e in Duchamp i padri fondatori, solo all’apparenza antitetici, del secolo, e va scoprendo un fratello in Francis Picabia, parodista e riscrittore geniale di figure.

Dunque, egli dissemina cataloghi (a cominciare da quello della fondamentale personale alla galleria Schettini di Milano, 1954) e pubblicazioni non solo di figure energetiche tese al limite della conflagrazione, ma anche di sagome formalmente compite, in una sorta di controcanto intellettualmente acuminato.

Matura a questo punto la fascinazione di Baj per i materiali decorativi – stoffe da materasso, tappezzerie e affini, e parimenti i frammenti splendenti di vetro muranese utilizzati da Fontana nelle sue opere: esemplare è Piccolo bambino, 1955 – e la sperimentazione di un collage polimaterico fastoso sino alla saturazione e alla ridondanza.

Baj, Vieni qua biondina, 1959

Baj, Vieni qua biondina, 1959

I tessuti, delocati dalla loro quotidiana ordinarietà, assumono la qualità di uno spazio totalmente e antiretoricamente autre: va specificato che, allora assai più che ora, la pratica “alta” dell’arte provava autentico orrore per tutto ciò che avesse una parentela qualsiasi con ciò che s’indicava con disprezzo la decorazione.

Lo straniamento che Baj ne fa non è fine a se stesso, perché si concretizza in campo d’apparizioni d’un teatro figurale sempre più apertamente mostruoso, dagli “ultracorpi” in fattezza di mostriciattoli antropoidi repellenti, di cui è antenato perfetto Trillalì-Trillalà, 1955, alla nascita dei “generali”, nipoti espliciti di Ubu e maschere d’un grottesco fatto spettacolo dell’inane: Il generale Eisenhower sulla passeggiata a mare di Nizza col suo piccolo cane, 1956, è capostipite d’una lunga genia che s’inoltrerà nei decenni.

Di fatto ormai l’arte nucleare è poco più che un brand, a questo punto. Di ciò Baj è perfettamente consapevole. Ma è altrettanto cosciente che la visibilità internazionale – tale è, dalla seconda  metà decennio – del suo lavoro è garantita nel circuito dell’avanguardia proprio dal suo ruolo di caposcuola nucleare, di autentico intellettuale a tutto campo capace di un lavoro primario ma anche di promuoverlo e difenderlo adeguatamente in tutti i contesti.

Beninteso la sua militanza nelle ragioni del nuovo non è messinscena. Tutt’altro. Senza fideismi e proclami ideologici, anzi proprio per questo, Baj incarna una delle coscienze artistiche eticamente più limpide del dopoguerra.

Del resto, lo si è ben visto, sia Baj sia Dangelo, perfetti eredi del filone meno calvinista dell’avanguardia, sono riottosi per natura a qualsiasi ortodossia, a cominciare dalla propria. La mostra “Arte nucleare 1957” rinnova, al San Fedele, le prospettive di un raggruppamento che mira a rinfrescare la propria compagine cooptando nuovi artisti di vaglia, pur dagli orientamenti assai diversi, come Yves Klein, Piero Manzoni, Arnaldo e Gio’ Pomodoro. È  l’occasione della diffusione del manifesto Contro lo stile, registrazione del definitivo mutamento di clima, annuncio del superamento radicale ormai in atto dell’art autre: nei fatti, della fine del movimento nucleare.

“Ma ogni invenzione rischia ora di divenire oggetto di ripetizioni stereotipe a puro carattere mercantile; è quindi urgente intraprendere una vigorosa azione antistilistica per un’arte che sia sempre autre (cfr. Michel Tapié). “De Stijl” è morto e sepolto ed è al suo contrario – l’antistile – che spetta ora di abbattere le ultime barriere della convenzione e del luogo comune, le ultime che la stupidità ufficiale possa ancora opporre alla definitiva liberazione dell’Arte. Già l’Impressionismo liberò la pittura dai soggetti convenzionali; Cubismo e Futurismo a loro volta tolsero l’imperativo della imitazione oggettiva e venne poi l’astrazione per dissipare ogni residua ombra di una illusoria necessità di rappresentazione. L’ultimo anello di questa catena sta per essere oggi distrutto, noi Nucleari denunciamo oggi l’ultima delle convenzioni – lo stile. Noi ammettiamo come ultime possibili forme di stilizzazione le “proposizioni monocrome” di Yves Klein (1956-1957): dopo di ciò non resta che la tabula rasa o i rotoli di tappezzeria di Capogrossi. Tappezzieri o pittori: bisogna scegliere”.

Val la pena di citare l’intero elenco dei firmatari, Arman, Baj, Bemporad, Bertini, Calonne, Chapmans, Colucci, Dangelo, De Miceli, D’Haese, Hoeboer, Hundertwasser, Klein, Koenig, Manzoni, Nando, Noiret, Arnaldo e Gio’ Pomodoro, Restany, Saura, Sordini, Vandercam, Verga, per notare come esso implichi una sorta di plurale panoramica europea della nuova generazione, mentre vi brilla l’assenza significativa delle firme di Jorn, Pinot Gallizio e Piero Simondo, impegnati proprio in quelle settimane con Guy Debord nella fondazione dell’Internationale Situationniste, e incamminati lungo una traiettoria intellettuale sempre più distante da quella di Baj.

La serie delle Montagne segna, nella seconda metà del decennio, il primo momento della grande maturità di Baj. Si tratta di opere visivamente sottili e potenti, una sorta di reinvenzione artificiosissima e parodistica del naturale condotta con una economia di mezzi precisa e lucida pur in un ambito pienamente sperimentale: a cominciare dalla tecnica pittorica che, in omaggio all’umore nucleare, l’artista definisce “acqua pesante”, e che è un perfetto incrocio tra controllo operativo e alea.

Il mondo artistico di riferimento di Baj va mutando, negli anni, ma incessante è la sua curiosità golosa di esperienze ulteriori, di rimesse in questione, di azzardi e assalti alle torri dell’intellettualismo compassato, dell’ufficialità dei clercs saccenti e troppo spesso imbecilli.

Il rapporto con Parigi si fa sempre più fitto. Soprattutto quello con gli esponenti di un mondo dada e surrealista che già Schwarz aveva cominciato a lumeggiare in modo sistematico, aprendo nel 1954 la propria libreria con galleria con mostre di Marcel Duchamp, Max Ernst (omaggiato dalla copertina del primo numero de “Il Gesto”) e Kurt Schwitters, e con la collettiva “Il segno e la parola” in cui figuravano, tra gli altri, Appel, Jorn, Baj e Dangelo accompagnati da frammenti testuali di Klee, Man Ray, Artaud, Breton, Éluard, all’insegna della triade “Poesia – Arte – Surrealismo”. Ora tali rapporti si fanno più diretti  e continui, e conducono nel 1959 alla presenza di Baj alla “Exposition Internationale du Surréalisme” da Daniel Cordier, centrata sul tema dell’erotismo.

Contemporaneamente egli recupera umori più schiettamente dada nel quarto numero de “Il Gesto”, 1959. Fontana ha suggerito che lo spazio è anche, semplicemente, questione di distanza, e che Euclide serve a ben poco se si pensa alla dimensione cosmica così consueta da sempre agli astronomi (giusto per il quadro cronistico, il primo Sputnik viene lanciato nell’ottobre 1957, e quattro mesi dopo l’Explorer 1). Ragionare e strologare nella misura del gioco intellettuale anche di un’Arte interplanetaria è dunque doveroso, immagina Baj. Dal vecchio santone dada Hausmann al futurista Farfa, da Fontana a un Angelo Verga che si cimenta con vere e proprie “razzo-sculture”, egli compagina una sorta di apparato ferocemente comico, a far da cornice agli ulteriori esperimenti visivi che egli va conducendo.

Il suo teatrino di monstra trasforma gli ultracorpi in veri e propri alieni, che invadono il nostro mondo ordinario e all’apparenza ordinato (geniale è l’invenzione di far planare delle sorte di astronavi inquietanti sopra un placido paesaggio kitsch con lago, casette e barchetta, in Au bord du lac), per, testimonia ancora il sodale Jaguer, “seminare nello spirito dello spettatore zizzania estetica e gioia senza limite”.

Il cambio di dimensione mentale si fa plastico nell’operazione di Baj, d’impronta squisitamente dada. Le immagini del kitsch stucchevole, siano esse un ameno paesaggio svizzero o le donne nude da illustrazione erotica insidiate dagli ultracorpi (Vieni qua, biondina è una sorta di versione grottesca e devastata di una Susanna e i vecchioni), vengono assunte con perfetta appropriatezza, recitano nell’opera la parte di se stesse: la collisione che l’artista attua si fa, perciò, autenticamente dirompente.

È ormai chiaro che le materie gurgitose di pochi anni prima sono completamente trascese, in questa nuova concezione d’immagine, la quale assume un’asciuttezza tutta intellettuale e una flagranza visiva fastosamente concitata.

È, questo, l’annuncio del Baj che verrà, genio estroverso e mobile, proliferante e felice.

 

Nota. I testi citati sono nell’ordine D. Fabbri, Baj e Dangelo. Pittura nucleare, catalogo, Milano, Galleria San Fedele, 1951; L. Fontana et aa., Proposta di un regolamento del Movimento spaziale, 2 aprile 1950, in T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra (1945-1957), Milano, Schwarz, 1957; E. Baj, Automitobiografia, Milano, Rizzoli, 1983; A. Jorn, Musique phénoménale, in Asger Jorn e Jean Dubuffet, catalogo, Venezia, Galleria del Cavallino, 1961;  G. Kaisserlian, Arte nucleare, catalogo, Milano, Amici della Francia, 1952; B. Dal Fabbro, Aforismi nucleari, in Arte nucleare, catalogo, Venezia, Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian, 1954; B. Dal Fabbro, Enrico Baj, catalogo, Milano, Galleria Schettini, 1954; E Jaguer, Baj, Milano, Schettini, 1956; J. Dubuffet, L’Art Brut préféré aux arts culturels, catalogo, Paris, Galerie René Drouin, 1949; E. Brenna, Prefigurazione, catalogo, Milano, Studio B24, 1953; E. Baj, De Rerum Natura, trentasei acqueforti originali per il poema di Lucrezio, con un testo di R. Sanesi, Milano, Schwarz, 1958; A. Schwarz, in Automitobiografia, cit.; Contro lo stile, Milano, Movimento arte nucleare, 1957; E. Jaguer, Enrico Baj e la comica interplanetaria, in “Il Gesto”, 4, Milano, settembre 1959.