Eugène Delacroix, “le plus légitime des fils de Shakespeare”, Musée Eugène Delacroix, Paris, sino al 30 giugno 2014

Quanto conti il teatro nella definizione di scena pittorica, tra ‘700 e ‘800, è fatto ormai assodatissimo: sino al gioco complesso di ritrarre attori nel ruolo di personaggi, lavorando con varia sottigliezza sulla duplicità che ne scaturisce.

Delacroix, La mort d'Ophélie, 1843

Delacroix, La mort d’Ophélie, 1843

La letteratura nutre il vedere romantico, è un fatto. E il territorio intermedio dell’illustrazione è laboratorio prezioso, nella costruzione di un immaginario condiviso. Non a caso è intorno a due grandi visionari, Dante e Shakespeare, che molto dell’‘800 gioca le sue partite visive migliori.

Delacroix matura esattamente in questo clima e approda all’Amleto alla fine del decennio ’20, reduce tra l’altro dall’illustrazione d’un altro grande luogo della coscienza, il Faust goethiano. È un amore duraturo e corrisposto.

Ed è lo stesso innamoramento in cui cade anche Hector Berlioz, con l’aggravante, per il musicista, di quello per l’attrice  Harriet Smithson, protagonista della memorabile edizione parigina della tragedia nel 1827, che segna l’avvio di una vicenda sentimentale tormentatissima.

Delacroix, Romeo et Juliette au tombeau des Capulet, 1855

Delacroix, Romeo et Juliette au tombeau des Capulet, 1855

L’Amleto esce con tredici tavole in-folio da Gihaut Frères nel 1843, vertice d’una passione shakespeariana che Delacroix affida, nei decenni, a una ventina di dipinti. In litografia l’artista non ha a disposizione le ricchezze della pittura, e deve agire soprattutto sulla composizione e sull’implicita espressività di pose e contesti. È una serie fondamentale, un autentico vertice del romanticismo europeo.