Albert Diato profeta del grès, in “La Ceramica”, 19, Milano, dicembre 2013

Il 31 marzo 1958 si inaugura alla Galleria dell’Ariete di Milano una mostra a due di Albert Diato e Nanni Valentini voluta e introdotta da Lucio Fontana, santone riconosciutissimo della ceramica in arte. Subito dopo, per comprendere il clima d’allora, la stessa galleria presenterà personali di Antoni Tàpies e Henri Michaux.

Diato, Cavalier sans tête, c. 1952

Diato, Cavalier sans tête, c. 1952

Così la ricorderà, anni dopo, Valentini: “Erano lavori di terracotta greificata con poco smalto. Gli impasti del grès davano a queste opere un suono diverso. Economicamente fu un fiasco. I nostri soli compratori furono: Fontana, un compratore americano, Ettore Sottsass il quale contribuì molto alla vendita, poi, di altri oggetti”.

Fu, quella mostra, il culmine dell’incursione italiana del monegasco Diato, una delle figure più fascinose e mobili della ricerca ceramica contemporanea.

L’incontro decisivo il ventunenne Diato lo compie nel 1948, iniziando a frequentare a Vallauris Pablo Picasso, che all’atelier Madoura va facendo della ceramica una delle sue tecniche predilette. Il clima è vivissimo, e soprattutto è assai poco disciplinare in senso stretto: si nasce in pittura e in scultura e si annette la ceramica, con il suo spettro amplissimo di possibili, al proprio rovello espressivo, piuttosto.

Diato, La chouette et son œuf, c. 1980

Diato, La chouette et son œuf, c. 1980

Diato unisce il suo entusiasmo a quello di Francine Del Pierre, più che trentenne giornalista folgorata sulla via della ceramica – con lei si recherà, come in un pellegrinaggio, a bottega da Lucie Rie e Hans Coper –  e del quasi coetaneo Gilbert Portanier nell’Atelier du Tryptique: che è luogo di prove di un goloso autodidattismo più ancora che di sperimentazioni, ma conserva fragrante il sapore di una ricerca che si pensa e si vuole tutta nell’arte. Il seguito Del Pierre fonderà con France Franck lo storico Atelier de la rue Bonaparte a Parigi, mentre Portanier diverrà uno degli autori illustri di Rosenthal.

È affascinato dall’astrazione, Diato, o meglio dalle stilizzazioni brusche e forti d’umore postcubista, cui non sono esenti aromi surreali, e non sarà estraneo alle suggestioni del tachisme e poi dell’astrazione lirica, esercitando la sua vocazione a dipingere e a disegnare tanto quanto il suo approccio alla ceramica.

La seconda svolta decisiva per la sua storia porta il giovane francese a Faenza, nel 1954, come borsista all’Istituto Ballardini. La tradizione grande, e incombente, della maiolica non lo appassiona più di tanto. Il grès è la sua tecnica, un pensiero orientale che può vivificare la nuova arte europea. A Faenza opera e ha già ottenuto i primi riconoscimenti Carlo Zauli, mentre altri artisti emergenti, Nanni Valentini e il giovanissimo Giuseppe Spagnulo, sono in cerca di un senso diverso, profondo della terra: il grès è il credo che li accomuna e che porta da subito a risultati d’eccellenza, se si considera che Zauli nel 1957 tiene una personale milanese alla prestigiosa galleria Montenapoleone dove espone solo opere in grès, e che poche settimane dopo Diato (il quale quell’anno ottiene un premio all’XI Triennale di Milano, e nel 1958 al XVI Concorso nazionale della Ceramica di Faenza) e Valentini, i quali ora fanno base nel nuovo studio aperto ad Arcore, approdano all’Ariete.

Il grès diventa una sorta di cifra di riconoscimento della nuova ricerca italiana resa fertile da Diato: da Nino Caruso a Guido Gambone, da Salvatore Meli a Pompeo Pianezzola e Alessio Tasca, il meglio della nuova arte nostrana fa i conti con questa sorta di terra sorgiva, le cui autonome vocazioni plastiche mediare con la ricerca della forma.

Diato, Carafe, c. 1948-1950

Diato, Carafe, c. 1948-1950

Poi il francese è di nuovo in moto, tra Monaco e Parigi. Lavora alle decorazioni architettoniche della Bibliothèque Princesse Caroline di Monaco,  e subito si dedica a un grande pannello in ceramica e a un soffitto in stucco per la sala dei delegati della sede parigina dell’Unesco. L’epicentro del suo lavoro è Parigi, dove affianca ceramica e pittura in un intreccio virtuoso e fervido. Viene, poi, un’altra partenza.

Nel 1967 eccolo in Afghanistan, impegnato in un progetto di rilancio della storica comunità di ceramisti di Istalif, antica e nobile, chiamatovi da Mohammed Zaher Shah, l’ultimo re afghano. Rimane in Oriente sino al 1971, per poi installarsi nuovamente a Parigi, Cité Veron, ai piedi di Montmartre.

Fiorisce in questo periodo la serie degli Oiseaux nyctalopes, forse la sua più famosa, che riprende la predilezione per i temi zoomorfi già maturata negli anni ’50.

Ma Diato non è uno spirito sedentario. La sua curiosità vorace lo spinge a vedere e sperimentare, dell’arte della terra, tutto lo spettro delle suggestioni culturali possibili. Eccolo ancora nel Togo, all’avvio del decennio ’80, a saggiare ulteriori identificazioni possibili tra il “primitivo” d’una tecnica atavica e i frissons del moderno, tra le sensuosità d’un premente erotismo fabrile e bruschezza grafica, tra la fisiologia di una forma che nasce “da dentro” e le captazioni d’una trattazione sontuosa delle superfici. Poi, finalmente, viene il ritorno in patria di questo ulisside della cercamica. L’École des arts décoratifs di Monaco può annoverarlo nel 1984 tra i propri insegnanti: ma è davvero una stagione finale, ché l’anno successivo Diato muore.

Mi piace pensare a Diato come a un artista genetico, la cui qualità si manifesta nell’opera sua e non meno in quella di coloro che con lui hanno un’interlocuzione intellettuale.

E poi c’è quel suo rapporto criticamente vivo con l’orizzonte della tradizione ceramica, quel suo penetrare senza esotismi e senza arroganze la forma tradizionale mantenendo ben viva la consapevolezza che, come sempre nella storia artistica, la qualità artigianale del fare è al servizio di un pensiero unitario dell’arte: l’artefice afghano e Picasso appartengono insieme a questo orizzonte: si tratta di comprendere il come e il perché, e di compiere un passo ulteriore sulla via della creazione.