Renato Guttuso. Il Realismo e l’attualità dell’immagine, catalogo, Museo Archeologico, Aosta, 27 marzo – 22 settembre 2013

Ragionare del “rapporto tra l’uomo e la sua società, l’uomo e la donna, l’uomo e gli elementi”, è la misura dell’impegno che Renato Guttuso chiede alla pittura nel testo L’arte dei giovani, apparso nel 1937 (1).

Un rapporto, cioè una condizione e una ragione dell’esistere indagati senza remore, sullo sfondo di un essere nella storia che esclude ogni vagheggiamento culturale, ogni schema preconfetto, ogni fuga intellettuale. È, questa svolta degli anni ’30, il momento di prima lancinante maturità pittorica dell’artista, una scelta di collocazione e di orientamento che ne dichiara, da subito, il destino.

Guttuso, Donna alla finestra, 1942

Guttuso, Donna alla finestra, 1942

Un’intera generazione, da Renato Birolli a Mario Mafai, da Gabriele Mucchi a Lucio Fontana, identifica il limite della vicenda artistica italiana nel suo vivere d’alibi idealizzanti, soprattutto nel credo acritico in una mitizzazione dello stile che, di per sé, si faccia valore.

Margherita Sarfatti scrive nel 1930: “La nobiltà dello stile, la geometria alta della composizione, la ricerca della linea, della forma definitiva e del colore armonioso, sono nozioni dimenticate o sbeffeggiate che ritrovano ora il loro antico prestigio” (2). Non c’è vita, non c’è carne, non c’è tensione affettiva nel maçonner severo e compitante dei Funi e dei Sironi, e men che meno nelle soluzioni algide del realismo magico, considerano questi giovani: non c’è l’essere contaminato nel tempo, il dramma della storia, che essi leggono piuttosto nelle retoriche alte di Géricault e Delacroix, di Van Gogh e Grosz.

“Corrente” (3), Guttuso protagonista, nasce da qui, coagulo a geometria variabile che non intende darsi un assetto formale chiuso, non linee ideologiche univoche, ma farsi crogiuolo di esperienze anche diversissime cui sia ben chiaro, soprattutto, quanto Eugenio Montale aveva precocemente messo in parola in Ossi di seppia: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (4).

La scelta di Guttuso è radicale, in quel tempo giovanile. Sono, le sue, nature morte di brusca potenza, composizioni umili e corpose che una trattazione pittorica energetica, intensificata sino a una sorta di spasimo plastico, rende presenze inquiete, di non mediata evidenza. L’artista tende, quasi per vocazione innata, al sovratono, sia negli accenti cromatici sia, e soprattutto, nel forzare espressivamente i piani, gli equilibri, la struttura compositiva tutta, come per interna accelerazione vitale.

Guttuso, La battaglia di Ponte dell'Ammiraglio, 1952

Guttuso, La battaglia di Ponte dell'Ammiraglio, 1952

E sono interni dalla narratività asciutta e bassa, popolari nell’animo prima ancora che nell’iconografia. Sono, soprattutto, immagini d’una nuova epica possibile (penso a Fuga dall’Etna, 1939, alla Crocifissione del 1941) in cui Guttuso media, con una selettività che in quegli anni è una sorta di sicurezza rabdomantica, filigrane cólte della grande pittura antica, il riferimento problematico costante del suo operare tutto.

Gli artisti di Corrente annunciano: “Il quadro deve essere per noi un modo come un altro per comprometterci. Vogliamo impostare il discorso pittorico in funzione rivoluzionaria: che tenda cioè all’agitazione degli uomini e a provocare dirette domande e risposte” (5). E per parte sua Guttuso è ancor più esplicito: “(Dipingere può significare appunto dar concretezza e reale identificazione formale al proprio arbitrio). Non dunque idolatria ma concreta espressione di un concreto mondo di oggetti e di uomini a portata delle nostre mani, delle nostre discussioni, dei nostri pensieri; non idolatria in un mondo moderno antiumanistico ma di cultura scontata ora per ora nelle nostre azioni più eroiche e più usuali” (6).

Quel mondo concreto è il mondo dell’esistere effettivo, primariamente, in cui l’artista interrogando se stesso non si separa dalla comunità di cui fa parte ma, com’era nelle stagioni autorevoli del passato, se ne fa interprete, e figura criticamente attiva.

La politicità della posizione di Guttuso è tutta inscritta in questa scelta. Più lucidamente di altri, egli avverte che l’impasse primaria delle arti del ‘900 è l’aver mitizzato la propria disciplina, il proprio irrelato sistema di valori, come mondo a parte.

Guttuso, I tetti di via Leonina con rampicante, 1962

Guttuso, I tetti di via Leonina con rampicante, 1962

Certo, l’autonomia fondamentale è fuori discussione: e a ben vedere lo sarà per il nostro anche in seguito, anche negli anni difficili del dibattito sul realismo. La pittura non può sopportare d’essere eterodiretta. Ma una raison d’être che non sia il mero vagheggiamento estetico, il riflettere e il discorrere delle proprie stesse forme e teorie, dovrà pur essere rivendicata, infine.

L’artista è un uomo tra altri uomini, che, per usare le parole dello stesso Guttuso, esplorando il proprio petto esplora il reale stesso, perché “la totalità dell’essere non è cosa diversa dalla totalità dell’uomo con il mondo” (7). E gli altri uomini, uomini come lui, sono il pubblico. Il pubblico vero, quello cui rivolgersi a prescindere dall’intermediazione di committenza del mercato, della critica, del milieu intellettuale.

Gli accenti d’epopea popolaresca che l’artista mette in campo sin dalla sua stagione prima, quell’esigenza di chiarezza narrativa – sia pur filtrata attraverso accelerazioni coloristiche e concitate evocazioni manieristiche – indicano dunque che egli ha ben chiaro che il quadro è opera sì individuale, ma implica ineludibilmente la complicità emotiva e culturale d’uno spettatore, d’una comunità di spettatori, che la riconosca come luogo di enunciazione di valori condivisi.

Guttuso, Comizio di quartiere, 1975

Guttuso, Comizio di quartiere, 1975

L’immediato secondo dopoguerra vede Guttuso protagonista delle maggiori vicende di affermazione della pratica artistica come engagement intellettuale nel politico, in un volger d’esperienza che trascorre rapidamente dalla fascinazione picassiana all’enunciazione di una declinazione ulteriore del realismo.

Nel 1946 Guttuso è tra i firmatari del manifesto della Nuova secessione artistica italiana, sottoscritto anche da Birolli, Cassinari, Levi, Leoncillo, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Turcato, Vedova, Viani. Questi artisti, vi si legge, “tendono a far convergere le loro tendenze, solo apparentemente contrastanti, verso una sintesi riconoscibile soltanto nel futuro delle loro opere”: dunque, una scelta di politica dell’arte che trascende, nelle intenzioni, gli stessi specificati orientamenti individuali.

La denominazione indicata da Birolli, “secessione”, si richiama alle esperienze d’inizio secolo in cui gruppi di artisti rifiutati dall’ufficialità si proponevano in alternativa polemica ed esemplare. Da subito, però, Guttuso tende a opporvi la dizione Fronte nuovo delle arti, di più spiccata accezione politica, che prevale nel 1947 nella mostra milanese alla Galleria della Spiga (8).

In termini linguistici, è ora Picasso a far da riferimento primario: Guernica è il manifesto perfetto dell’arte di impegno a forte componente comunicativa, ed è la saldatura ideale tra istanze dell’avanguardia e ragioni di concreta necessità storica della pittura.

Guttuso, Il Caffè Greco, 1976

Guttuso, Il Caffè Greco, 1976

Anche Guttuso saggia una sorta di riduzione della forma, postcubista si diceva allora, a grammatica elementare, schematicamente forte, in cui la struttura grafica domini le spinte plastiche e le istanze di rappresentazione pur senza sminuire il senso di corporeità delle cose. Tuttavia, presentandolo in seno alla mostra milanese del 1947 del Fronte nuovo delle arti, Lionello Venturi scrive che “Guttuso non è, non è mai stato, un cubista, proprio perché il suo temperamento è quello di un realista”, e che la sua qualità sta nel “frapporre un velo intellettuale tra l’occhio e la natura”.

È proprio Guttuso, d’altronde, a redigere il testo introduttivo alla sala personale di Picasso alla Biennale di Venezia del 1948, quella in cui il Fronte nuovo delle arti si presenta in gran spolvero (9), ragionando di un’identità nazionale dell’arte che passi attraverso una pittura nuovamente epica (è in questo momento, d’altronde, che prendono ad avere grande fortuna nel dibattito nostrano artisti come Orozco, Siqueiros e Rivera, interpreti di quell’arte murale popolare che in Messico si è intrecciata con le ondate rivoluzionarie e che sarà celebrata alla Biennale del 1950), semplice, di diretta intelligibilità, forte per i “contenuti” tanto quanto ostile ai “cerebralismi”, e soprattutto nemica del rivendicato individualismo della ricerca “pura” e dei nuovi linguaggi.

Viene il tempo delle polemiche politiche, del dibattito sull’arte al servizio della militanza politica, delle scelte intellettualmente forti di Vittorini intorno al non voler “suonare il piffero per la rivoluzione” e del dirigismo culturale di Togliatti in seno a un Partito Comunista Italiano che non ammette altra scelta intellettuale che l’adesione alle linee tracciate dalla guida politica (10).

Ora che una sufficiente distanza di tempo ci consente di guardare in più nitida prospettiva quegli eventi, è chiaro che furono soprattutto gli intellettuali di maggior talento e spessore, Guttuso in testa, a soffrire nel tentare una sorta di mediazione – che oggi sappiamo impossibile – tra l’eterodirezionalità delle scelte di un apparato politico e le libere istanze della pratica artistica.

Le esigenze di una comunicazione popolare dal tono parenetico, civile perché pubblica, ideologicamente chiara, figurano già, s’è visto, nel codice intellettuale ed espressivo di Guttuso. Egli ritiene che ora, in forza di ciò, si possa dar vita a un autentico realismo nuovo, senza incorrere necessariamente nella clausola žadanoviana per cui “la verità e il carattere storico concreto della rappresentazione artistica devono unirsi al compito di trasformazione ideologica e di educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo” (11) in termini di mera illustrazione.

Guttuso, Case di Palermo, 1976

Guttuso, Case di Palermo, 1976

Non è un caso che il suo rapporto d’amicizia con Vittorini permanga intatto negli anni, segnato da occasioni come i testi dello scrittore per Disegni di Guttuso, edito da Corrente nel 1942, e poi ancora per la monografia delle Edizioni del Milione, Milano 1960, e da un progetto di illustrazione di Conversazione in Sicilia cui il pittore attende dagli anni ’40 e che vedrà la luce solo nel 1989, presso Rizzoli.

Sta di fatto che, in un clima in cui dal 1948 il Premio Suzzara propone esplicitamente come soggetti “ritratti di lavoratori, ambienti di lavoro, paesaggi con vedute di fabbriche o cantieri, di campagne lavorate, nature morte con strumenti di lavoro”, e la drammatica divaricazione partitica che la vicenda elettorale italiana del 1948 ha reso esplicita, inducono allo schieramento tout court più che al distinguo, al dibattito, alla posizione criticamente delineata.

Alla Biennale veneziana del 1950 si segnala, nelle parole del segretario generale Rodolfo Pallucchini, “la strada nuova, diciamo neorealistica ed obbiettivamente rappresentativa, di alcuni artisti sotto l’impulso di uno stimolo politico o sociale”, sotto l’egida del largo dipinto  L’occupazione delle terre incolte in Sicilia di Guttuso, d’un anno precedente (12).

Oltre alla grande tela di Guttuso, sono esposti Un fantasma percorre l’Europa e I difensori delle fabbriche di Pizzinato, e Occupazione delle terre di Zigaina. Di lì a poco la grande scena de La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, 1951-1952, testo base del neorealismo presentato all’edizione successiva della Biennale, mostra un episodio della guerra garibaldina come trasfigurazione della recente guerra partigiana, in toni di grande racconto drammatico: vi si legge la riflessione di Guttuso sui cicli affrescati dell’antico come sul muralismo messicano, in nome di una chiarezza “nazionale-popolare” che i colpi aspri di luce e le forzature di rapporti coloristici rendono moderna.

La scelta di militanza è netta, in questo tempo. L’epopea popolare, la testimonianza politica, si vestono in lui di accenti scabri e di forme bruscamente snudate, in una sorta di inesteticità scavata in luogo di qualsiasi compiacimento visivo. Certo, prescindendo dalle prove di Guttuso, che pure in questi anni non sono tra le sue più alte, il panorama del neorealismo pittorico italiano non supera il confine di quella contingenza climatica. Ed è peraltro vero che le posizioni della rivista “Realismo”, nata nel 1952, cui egli pure dà un apporto decisivo, si esauriscono nel fuoco polemico immediato, senza poter trascendere a un più alto livello di consapevolezza.

Si tratta, in ogni caso, di una stagione breve, che già a metà decennio un telero come La spiaggia mostra di aver di fatto superato. Di lì a pochi anni la posizione di Guttuso sarà assai differente, come testimonia l’ampio e onesto Dialogo sulla pittura in cui l’artista si confronta con la propria storia recente.

“Il movimento realista fu un tentativo in extremis, fu, in parte, la illusione di fronteggiare il pericolo di un generale precipizio”, vi afferma Guttuso. “Oggi noi vediamo assai più chiaramente di quanto non vedessimo allora la sproporzione tra la volontà di far fronte ad una esigenza reale e obiettiva, e le possibilità, altrettanto reali e obiettive. La nostra scelta implicava il lasciar la porta aperta ad errori, rozzezza, superficialismi, e anche ad altre forme di retorica e di passività”, egli ammette. Una sorta di pressione storica pressoché intollerabile, dunque, il fuoco dell’antagonismo politico e culturale nei confronti di un ambiente artistico che si vuole ufficiale e che sul formalismo algido e su un art autre estetizzante fa riposare il proprio simmetrico fideismo, avevano imposto prese di posizione di cui si conosceva l’estremismo, magari lo stesso implicito limite dialettico e, complessivamente, artistico.

Ciò detto, Guttuso rivendica con orgoglio integro il rifiuto dell’idea della tradizione moderna come mainstream univoco, necessariamente avanguardistico, necessariamente spinto al rifiuto del rapporto di coscienza con la realtà sensibile. Afferma ancora l’artista: “Aver guardato a un settore di storia più ampio, che comprendesse Géricault, Courbet, Daumier, aver cercato di stabilire nessi più vasti nella identificazione di una tradizione rivoluzionaria dell’arte moderna legata alla trasformazione della società, alla nascita e alla infanzia del mondo moderno, fu un nostro merito. Almeno fu una proposta di visione generale di una tradizione dell’arte moderna che non fosse soggetta alle periodizzazioni di comodo” (13).

Una cosa, comprende Guttuso in questi anni. Che il suo è, né altrimenti può essere, un percorso individuale, che il suo ergersi a coscienza civile può avvenire non in forza di raggruppamenti e coperture ideologiche, ma di scavo autentico, senza remore, del suo rapporto esistenziale e – in questa chiave sì – politico con la realtà che lo circonda, le sue dinamiche, i suoi segni, le sue spinte.

Indagare se stessi nel reale è indagare il reale. Interrogare e interrogarsi non è offrire risposte, ma chiavi per altre, sempre più radicali, domande. Questo il compito possibile. Questo uno statuto di necessità dell’arte che si sa non improbabile, non contingente, non volontaristico.

Il ragionamento pittorico si fa serrato, all’epopea subentra una visione grande consapevole piuttosto del senso della collettività, della scena di popolo. Lavorare sul genere – la natura morta, ancora, il paesaggio, il nudo – evita peraltro rischi di retorica iconografica, consente all’artista di concentrarsi sul perché prima ancora che sul come della pittura.

Ancora una riflessione scritta, di feroce lucidità, Guttuso offre nel 1965: “L’arte è innanzitutto un problema morale – penso che da ciò che percepisco, dalla “insopprimibile presenza delle cose” traggo certezza e dubbio: ma un dubbio o una cer­tezza che prescindessero dal “mondo” non avrebbero senso. Per questo non ritengo la figuratività una convenzione, ma una necessità.

Sempre ha contato, soprattutto, per me il rapporto con le cose. Trovare, o credere di trovare questo rapporto (naturalmente non stabile né fisso), ha significato, in qualche modo, tentare la possibilità di comunicare tale rapporto. Un’arte senza un pubblico non esiste. Ciascuno ha certo le sue costanti, che tornano attraverso le esperienze e che sono il modo imponderabile in cui una certa forza vitale, cosmi­ca, si insedia nelle forme. Neppure il tabù del linguaggio precostituito e del metodo riesce in un artista vero a sopprimere tale impulso, il solo che conta, perché “umano” nella sua radice e nelle sue ramificazioni.

Ritengo che il dibattito su questo punto sia oggi tanto esasperato che i termini veri del problema sono sommersi e quasi scomparsi sotto il peso di altre implicazioni.

Esistono certamente problemi linguistici, ma essi si pon­gono oggi anche come recupero di strumenti di cui si era (a buona ragione, nel dato momento storico) decretata la insufficienza. Mi riferisco alle nuove esperienze figurative, alla puntata polemica pop, al ritorno dello stile geometrico nelle sue varie accezioni “ottiche” e non ottiche, ecc. Il linguaggio non è una questione privata dell’artista, ma si dirige in due sensi: verso l’artista e verso il pubblico.

Ho detto “recupero di uno strumento” (con le dovute modificazioni, e perciò recupero come sviluppo; non come nostalgia), perché è vano parlare di un recupero di funzioni senza implicitamente por mente agli strumenti. Nel caso che si volesse fare una distinzione tra funzioni e strumenti si  avrebbe davvero una regressione di fatto e una modificazione solo formale ed esterna.

Comunque non credo sia un buon segno quando un pittore si trasforma in estetologo (così come è cattivo segno quando si trasforma in ideologo).

Il pittore è un filosofo, ma la sua filosofia è la pittura; non il discorso filosofico, ancor meno il discorso sul discorso. Dipingere non è difficile, è difficile pensare. Frequentare il pensiero dei filosofi, e parlare con loro, mi serve a capire e a pensare: solo indirettamente, come tutte le altre azioni e sentimenti, a dipingere” (14).

L’epicentro iconografico della pittura di Guttuso si fa ora non un uomo socialmente profilato (il pescatore, l’operaio, il militante politico, ovvero narrato in una specifica condizione storica) ma l’uomo tout court, l’umanità tutta che l’artista risente in se stesso, nel suo esistere tra le cose, nelle cose specchiandosi.

Inevitabile è anche, in questa dimensione esplicitamente esistenziale, che inizi a trapelare dalle sue nuove macchine iconografiche la misura esplicita della memoria, vero diapason del sentirsi vivere nel tempo e nella storia.

È Cesare Brandi, lettore acuto di Guttuso e assai perplesso delle sue scelte per il tempo tutto del neorealismo, a soppesare tale componente e a collocarla come lievito essenziale nella ritrovata pienezza espressiva dell’artista: “Così il vero più vero di Guttuso è quando è di memoria, gli scende dal pennello col mesto accento del paese natio, dell’infanzia (lontana, ormai, anche per lui), e quando, più delle forzature populiste, dà ragione di un fondo autentico, non ricercato, subìto piuttosto, ed espettorato sulla tela, con odio e con amore insieme, ma senza blandirlo e senza ripudiarlo” (15).

Guttuso trascorre, senza soluzioni di continuità e senza abiura alcuna, a ragionare in modo sempre più decisivo di un’altra fondante storicità, quella della pittura stessa. Ciò cui egli sceglie di rinunciare in termini di cronaca si compensa nel peso specifico della immagine pittorica, nella sua eloquenza e nell’evidenza tutta specifica da cui discende l’autorità del suo senso.

Ragiona di e su Picasso, Morandi, gli impressionisti prima guardati con sospetto. Su Raffaello e Caravaggio, sulla grande maniera. E saranno ancora, negli anni, Van Gogh e Dürer, Zurbarán e Grien, Cranach a Rembrandt, Reni e David.

Anche I funerali di Togliatti, 1972, sono storia più che politica, sono grande antica composizione civile più che narrazione diretta. Guttuso sa, ora, che la fisicità dei corpi è la fisiologia stessa della materia pittorica, che non va filtrata ma solo controllata perché si addensi sulla tela a farsi figura, preservando l’essenza delle cose, il loro essere nel tempo e nello spazio.

Da questi decisivi anni ’70 discende un “realismo originalissimo”, secondo Roberto Tassi: “ma non se ne potrà intendere tutta la pregnanza, tutta l’estensione umana, se non si abbiano orecchie così fini da sentire il sottile crepito della fiamma amorosa che vi brucia dentro oscuramente”, facendosi stile “che ormai si spiega ampio epico solenne, con la durezza amorosa dell’idea, del sentimento, della narrazione e del ricordo” (16).

Anche l’umore allegorico entra ormai nella riflessione di Guttuso, in quel suo far crescere la costruzione iconografica da dentro, in virtù di delucidazioni progressive, sempre più proiettando sulla struttura concettuale della grande pittura del passato le tensioni e le occasioni della vita vivente, le domande sul senso del vivere. Sino alla fine.

Ora che l’ideologia dell’avanguardismo a ogni costo cede il posto a riflessioni meditate sul secondo dopoguerra, la scelta ispida di Guttuso, un’aristocrazia formale attenta allo stesso tempo alle ragioni essenziali del comunicare, conferma che il senso della storia può essere continuità e non rottura, far nuova la sostanza dello sguardo e non la pelle del far vedere, riportare l’umano al centro del discorso e non limitarsi a un’arte che parli solo d’arte.

Note.  1. R. Guttuso, L’arte dei giovani, in “L’Appello”, Palermo, 26 giugno 1937. 2. Un esame sintetico della situazione in F. Gualdoni, “L’ora dell’Italia”, in “La rivista bianca FMR”, 4, Bologna, 2008, da cui è tratta la citazione. 3. “Vita giovanile”, poi “Corrente di vita giovanile”, poi, semplicemente, “Corrente”, esce nel 1938 a Milano su iniziativa di Ernesto Treccani, coinvolgendo artisti e intellettuali come Sereni, Quasimodo,  Banfi, Cantoni, Comencini, Contini, Ferrata, Gatto, Paolo Grassi, Giaime Pintor, Vittorini, tra gli altri. Nel 1939 il gruppo tiene un’ampia collettiva alla Galleria Grande di Milano con Afro, Badodi, Birolli, Broggini, Cantatore, Caputi, Cassinari, Cherchi, Fazzini, Filippini, Fontana, Franchina, Genni, Guttuso, Mafai, Manzù, Migneco, Mirko, Montanarini, Mucchi, Panciera, Pirandello, H. Prampolini, Reggiani, Salvadori, Santomaso, Tallone, Tamburi, Tomea, Valenti. Lettura classica è R. De Grada, Il movimento di “Corrente”, Edizioni del Milione, Milano 1952. Il reprint della rivista è stato pubblicato a cura di V. Fagone, Nuova Foglio, Pollenza 1977. 4. E. Montale, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, in Ossi di seppia, (1925), Einaudi, Torino 1942. 5. Testo redatto nel 1943, si legge ora in E. Treccani, Arte per amore, Teti, Milano 1966, poi Feltrinelli, Milano 1978. 6. R. Guttuso, Paura della pittura, in “Prospettive”, 25-27, Roma, gennaio 1942. 7. R. Guttuso, Diario critico, in “Questo e altro”, 3, Milano, 1963. 8. G. Marchiori (a cura di), Prima mostra del Fronte nuovo delle arti, catalogo, Galleria della Spiga, Milano 1947. 9. G. Marchiori, Il Fronte nuovo delle arti, in XXIV Biennale di Venezia, catalogo, Venezia 1948. Sua è, tra l’altro, la più suggestiva ricostruzione di quella vicenda: Il Fronte nuovo delle arti, Giorgio Tacchini Editore, Vercelli 1978. Cfr. inoltre E. Di Martino (a cura), Il Fronte nuovo delle arti alla Biennale di Venezia del 1948, catalogo, Fabbri, Milano 1988; L.M. Barbero (a cura di), Il Fronte nuovo delle arti, catalogo, Neri Pozza, Vicenza 1997. Utile la ricapitolazione d’epoca, dall’ottica del versante realista, di L. Ferrante, L’arte d’avanguardia nel primo dopoguerra, in “Realismo”, III, 2, marzo-aprile 1955. 10. Suonare il piffero per la rivoluzione? è il titolo del paragrafo cruciale del lungo testo di E. Vittorini, Politica e cultura. Lettera a Togliatti, in “Il Politecnico”, III, gennaio-marzo 1947. La rivista, diretta dallo stesso Vittorini, esce a Milano dal settembre 1945 al dicembre 1947. Una larga antologia ne è M. Forti – S. Pautasso, Antologia critica del “Politecnico”, Lerici, Milano 1960, poi “Il Politecnico”, Rizzoli, Milano 1975. Cfr. inoltre E. Vittorini, Gli anni del Politecnico, Einaudi, Torino 1977. I passi più polemici del testo di Vittorini riguardano l’ottusità del funzionari intellettuali di partito: “Piccolo-borghese decadente, individualista, sono le definizioni più miti con le quali poeti o pensatori sono stati assillati da questi fittavoli di un presunto marxismo”. Tutto ciò, conclude Vittorini, “induce i poeti a dire: ‘mettiamoci al servizio della verità’. E non si accorge che questo significa non indurli a lavorare per la verità, a non adempiere il loro compito di scoperta propria della verità, a non cercare anche loro la verità, e indurli in compenso a suonare il piffero per una forma raggiunta di verità cui mancherà in ogni caso la parte di verità di cui essi avrebbero dovuto integrarla. […] Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere nell’uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre accanto alle esigenze che pone la politica, porre in più delle esigenze che pone la politica”. Utile anche la lettura di R. Garaudy, Non esiste un’estetica del partito comunista, in “Il Politecnico”, II, settembre-dicembre 1946: “È ‘marxista’ la ricerca ‘d’avanguardia’ o è marxista il ‘soggetto’? Lo sono l’una e l’altro o non lo sono né l’una né l’altro”. Nella nota introduttiva all’articolo, Vittorini nota che “premere su Renato Guttuso, perché dipinga più in un senso e meno in un altro, non fa invece parte di nessun compito rivoluzionario”. Le vicende del tempo si rileggono, dal punto di vista politico, in P. Spriano, Le passioni di un decennio 1946-1956, Garzanti, Milano 1986.  Per una visione complessiva, N. Misler, La via italiana al realismo. La politica culturale del PCI dal 1944 al 1956, Mazzotta, Milano 1973. 11. A. Ždanov, Arte e socialismo, Cooperativa editrice Nuova cultura, Zibido San Giacomo 1970. Il suo Politica e ideologia esce nel 1949 per le Edizioni Rinascita, Roma. 12. R. Pallucchini, Introduzione, in XXV Biennale di Venezia, catalogo, Venezia 1950. Sul dipinto, M. De Micheli, Guttuso. L’occupazione delle terre, Edizioni Schubert, Milano 1970. 13. R. Guttuso, Dialogo sulla pittura, in “Quaderni milanesi”, 4-5, Milano, estate-autunno 1962. 14. R. Guttuso, Comunicazione concreta di immagini concrete, in “Rinascita – Il Contemporaneo”, 7, Roma, luglio 1965. 15. C. Brandi, Guttuso a Parma, (1963), ora in Scritti sull’arte contemporanea, I, Einaudi, Torino 1976. 16. R. Tassi, Incontro con Renato Guttuso, catalogo, Fondazione Achille Marazza, Borgomanero 1979.