Benati (seconda parte)
Davide Benati, Silvana, Cinisello Balsamo 2001 (seconda parte)
6. Bassifondi del cielo. Il 1988 è segnato dall’esperienza della Pala dei bassifondi del cielo, opera solo per certi versi eccentrica nel percorso di Benati. L’atipicità è prodotta dall’occasione espositiva, nella chiesa ravennate di Santa Maria delle Croci, che induce Benati a concepire un lavoro congruente – per senso di sacralità dell’immagine più che per mera struttura – al luogo. In fondo, anche questo è innesco, e motif: e schermo memoriale sul quale proiettare i propri trasognamenti iconografici. Inoltre, è l’occasione per riandare, riprendendolo con giusta concentrazione intellettuale, alla partizione basso/alto dell’opera che già in opere precedenti si era annunciata foriera di svolgimenti d’intrinseco valore simbolico.

Benati, Frangipane, 1989
Riprendendo lo schema della scansione in pannelli, l’artista organizza una tripartizione verticale culminante in lunetta a dettare, com’era già nei primi anni del decennio, una soluzione oggettivata di continuità visiva: perfettamente congenita, in questo caso, alla gradazione tra fisica e metafisica d’eco teologica: evocazione, tra le altre, tutt’altro che banale.
La parte bassa è d’umore tenebroso, tra le sagome lanceolate già saggiate in Paese del calmo mattino e i raddoppi deidentificanti di Calle dell’inquietudine: con quei blu a inacidirsi in terra verde e indaco che si serrano drammatici, chiusi, padroni non amorosi di spazio. La parte mediana, continua/discontinua alla precedente, si apre, nonché in diagonali più nette e cadenzate, al gemmare di contrappesi di colore caldo in trepidezze sconosciute dai tempi di Rapace, ma con un tònos interno, un carattere accentuato di certezza formale: che fiorisce, letteralmente, in lunetta, semicerchio simmetrico al bordo e padrone d’uno spazio che d’altro non ha bisogno.
Quest’opera “è nata dal bisogno di misurarsi con una forma, quella della pala d’altare, che è un luogo canonico della pittura, e anche dalla possibilità che questa mi offriva di costruire, di architettare le forme dell’opera su uno spazio dato e quindi di affrontare uno dei grandi problemi della pittura, quello della sua costruzione”: così Benati (16).
Quanto cautelata, organizzata intorno a una non evidente assialità verticale, graduata nel crescere in altezza e luminosità dei toni (e verrebbe da citare Emilio Villa: “dal colore alla luce, e dalla luce a un probabile umore dell’idea”…), è la pala, affascinata dal suo stesso farsi, scopertamente in dialogo con il proprio schema retorico; risolta, anche, in un far grande di cui percepisci, in filigrana, l’orgoglio e l’ansia d’asserzione. E’, per certi versi, l’occasione di una ricapitolazione. Autocritico sino alla ferocia, Benati avverte a un tempo il rischio della maestria, così come, per altro verso, quello che il motivo monti sino a impadronirsi, di nuovo, della scena: che l’artista vuole, al contrario, in toto pittorica.
7. Notturno, silenzio. Benati si avvede in questo momento, anche, d’essere in cerca sin dalle Infinite gradazioni del buio d’una pienezza sensuosa della stesura che nessun riverbero straniato di toni, nessuna stratificazione di trasparenze, nessun riflusso suggestivo, nessun gorgo di diagonali può garantirgli. Si avvede, insomma, che il colore/luce non può addensarsi sino a farsi sostanza propria, identità oggettiva. Ed è ciò di cui egli in questo momento, fatto certo dalla sequenza laboriosa degli studi per la Pala, sa di aver bisogno. Il grande Notturno (con lanterne), in pendant con Diurno (con lucciole), 1989, presentato nella prima antologica alla galleria Civica di Modena, è opera primaria, e capostipite d’una serie operativa che si svolgerà nei primi anni Novanta, marcati dalla sala del 1990 alla Biennale veneziana.
Spiega Benati che “è un quadro che contiene anche una piccola citazione da una mia opera precedente, D’oppio sogno, nella quale appare questa visione totemica dei papaveri dell’oppio come sorta di incubo e di sogno allo stesso tempo. Il fatto che abbia riportato questa citazione tridimensionalmente non significa che io voglia immergermi in avventure che non mi appartengono, ma semplicemente che l’immagine prende consistenza laddove prima era solo ammiccata, allusa. Qui ho forzato i termini e l’ho portata nella sua fisicità, ancora una volta però mirando con il titolo ad una sorta di metafora di questa doppia visione del mondo dove a un certo punto non si sa più bene qual è il sogno e quale la realtà, le cose si confondono e si contaminano per dare vita a una terza soglia dell’immaginazione, sospesa” (17).

Benati, Insonne, 1993
Il meccanismo del raddoppio si fa, se possibile, ancor più serrato, oltre che più appropriato. E’ tra cosa fisica e rappresentazione, oltre che tra schema iconografico e immagine di pittura. E’ tra il biancore d’affettività alta e tersa dei pannelli di carta vergine e l’agonia opaca della luce sulle stesure d’olio – olio, ora, né altrimenti avrebbe potuto essere – dalle tonalità di blu e verde verso nero, piene, mature d’una pittura d’atti brevi e intensivi, che riassorbono l’aggetto plastico del fiore secco e lo assumono in segno pittorico. E’, ancora, tra l’acquerello che s’insinua lieve e ritma di sé il pannello chiaro, e il timbro alto, ora, del colore, e il contrappeso delle nervature plastiche, in lavori come Frangipane o Arpabirmana, 1989.
Benati percorre, forte di questa ormai posseduta consapevolezza, una scala inusitatamente estrema di possibilità. La prima serie Affiora, 1989-1990, innerva delle riquadrature e dei puri aggetti affioranti dalla materia/colore una campitura dalle monocromie inquiete, di cupa e sonante bellezza. Le successive tappe di Arpabirmana, così come Zafferano, e gli ulteriori Affiora, assumono la cantabilità inedita dei violetti crescenti in rossi sino al carminio, oppure dei viola ribaditi in rosa carnale, oppure dei gialli maturi, la cui assertività è contrappesata dalla balance tonale, e sovente dalla dimensione, del pannello a olio.
Se in un primo momento – ma solo in quel primo momento – avvertivi nella bipartizione perfetta, nella tensione alla polarizzazione cromatica, gli inneschi antichi della pittura fondamentale (il teoricismo di un Marden, ad esempio, ancorché ripensato sur peinture), ciò avviene solo nel momento breve in cui Benati, nel suo “parlare con le mani”, progredisce per passaggi cautelati e interrogativi: poi, è il dominio incoercibile del colore: così responsabile, così consapevole, da rabbonire in segno anche le pretese oggettive degli inserti. Così certo di sé da spingersi a pulsazioni emotive così sinceramente spese da far scrivere addirittura, in quel tempo, di “consapevolezza dolorosa e nervosa” e di meditazione “accorata e visionaria” (18).
Silenzi sottili, e Suoni, silenzio, e Silenzio, vento, e Silenzio, voci, tra 1991 e 1992 agiscono in una chiave ancor differente. Silenziosa è la castità di quei toni bianchi di carta; anch’essi, ora, per attrazione e rapporto, materia/colore, sempre più autorevoli nel sospingere i segni plastici a garantire di per se stessi, forti dell’incidersi netto di luce e ombra, la simmetria intima, attiva per lo più su diagonali divergenti (la stessa, a ben vedere, implicita da sempre in scelte di temi come la foglia di Ginko biloba o del seme d’acero) rispetto alle stratigrafie dei toni d’acquerello, alle dinamiche larghe, da gialli a viola pieni, del colore.
Il 1992 è anche il tempo in cui Benati, a ridosso d’una nuova antologica, ai Civici Musei di Reggio Emilia, prende a contaminare, come già riassumendo e stringendo, le ragioni più recenti della propria pittura. Lo schema della pala, implicante già, s’è visto, partizioni oggettive, e quello ritrovato e rinnovato del dittico, consentono all’artista, integrandosi, di svolgere il dittico anche per scansione verticale, facendo della lunetta, forte della sua sagomatura già saporosamente curvilinea, il luogo del colore, dell’epifania forte d’immagine, e della parte sottostante la dominante in termini spaziali, ma non percettivi (19).

Benati, Regina di Shangai, 2003
La lunetta riassorbe la propria forma troppo assertiva tornando al rettangolo, in seguito; partendo due aree congeneri di senso dalle proporzioni fortemente squilibrate, quanto dai pesi emotivi, e percettivi, simmetrici. E’ la serie che in qualche modo si pone a conclusione – e come sempre, inizio ulteriore – di questa stagione copiosa: sono i Chiaroscuri, la cui faglia orizzontale scatta a propria volta sulla verticale assiale, fascio di segni plastici in diagonali appena squilibrate: classicissima, la croce struttiva, e proprio perciò riassorbita, fatta pura garante delle temperature di tono e d’anima che l’acquerello, ulteriormente, declina.
8. Doni della bassa marea. Benati intende che tali castità plastiche, possono riassorbirsi, e farsi ulteriormente fertili, in un più segreto e unitario intento poetico. Ciò è reso possibile da un tema vegetale unificante, nuclearmente omogeneo, anziché articolabile e linguisticamente strumentale. Eccolo dunque prendere a lavorare, per ulteriori spostamenti d’assetto problematico e in forza della lucida consapevolezza maturata nelle serie ultime, intorno all’immagine della calla. La calla, che è motivo in se stesso centripeto, assorbente, e vale cavità oscura e splendida, dalle plurime suggestioni e profondità, tra evocazione e aroma di simbolo e gurgitosa sensiblerie.
Il titolo che Benati indica, 1994, per questa serie è Doni della bassa marea, riferito in modo aperto a Utamaro, a quello stupore lieve, ma quanto concentrato e penetrante, verso la cosa umile capace, per dignità formale, di farsi segno altro da sé. E’ ancora, come già si era dato in passato, un riferimento letterario e, iconograficamente, retorico, certo. Esso tuttavia consente a Benati di attivare la riflessione sull’ambiguità fondativa dell’immagine artistica: che sotto le bellurie strepitose della captazione sensibile può serbare una bellezza più sostanziosa e ricca: umbratile, segreta, lenta.
L’economia della bipartizione del quadro è progressivamente riassorbita nella continuità omogenea, nel passaggio naturale e congenito dalla sostanza visiva alla pittorica: che di dittico o di una superficie si tratti, è il valore di continuum tonale a contare primariamente, quella sorta di diapason di sostanza coloristica che allinea intorno a sé i brividi sottili di tono, e gli scarti in controcanto, da dominante anziché da mediano. Tale continuità si declina sia nello svolgimento verticale dell’opera, sia nella, per Benati storicamente più consueta, cadenza orizzontale, sia nello schiudersi di possibilità strutturali infinite e radianti, delle quali il nucleo iconografico valga, non tematicamente ma a tutti gli effetti formativi, il centro. E’ un centro da cui si dipartono, come per vortici moltiplicantisi, tensioni curvilinee a confliggere, ancora, con il fasci sempre più serrati di diagonali montanti. Ne nasce una sorta di invasione vagamente occlusiva, e in taluni momenti convulsiva, dello spazio, a provocare l’affondamento di occhio e senso ed emozione entro lo slargo desideroso del cuore: con quei rossi pieni e violetti, ma anche verdi, ad alzare senza intermedi il timbro espressivo.
Anche la trattazione pittorica, presenta mutamenti sostanziosi, pur come sempre soffusi, discretissimi, e infine evolutivi. Il primo riguarda la qualità stessa della stesura del colore. Se si confrontino gli olii dei primi Novanta con questi Doni della bassa marea, si avvertirà come nella nozione stessa di monocromia praticata da Benati sia trascolorato il turgore sostanzioso, mai veramente stremato, dell’olio, quasi a dover dimostrare la sua propria qualità, e sia prevalso un intendimento tonale, da un canto, e dall’altro pienamente e senza clausole espressivo, non esente da bruschezze e sprezzature; e melanconicamente meditativo. Del pari, l’acquerello intride ora la carta come per morsure incupite, macerandola, scavando nel verde cinereo e come torpido gli spessori d’un rosso senza splendore, rugginoso, verrebbe da dir digrignante, e d’introversa grazia: ma, nella lettura lunga, di tremenda, pulsante, distanziata ma avvertitissima, sensualità.

Benati, Terrazze, 1996
9. Terrazze. Gesti, molti, intensivi come mai, e rinuncia ad arguzie e sapienze, comporta il dramma sensuale dei Doni della bassa marea. Gesti che Davide aveva sempre saputo, e voluto, avvertitissimi, risentiti, concentrati più che effusivi: e che ora si ritrova in pari tensione e distillazione, ma gravidi d’una energia che s’identifica con la spinta stessa a scrivere colore. E’ possibile, egli ipotizza ora, che non solo gesto e colore si identifichino in toto, ma anche che il rapporto tra segno e superficie trovi pienezza proprio in virtù di quella energia, di quella scrittura?
Nascono così, secondo una inversione problematica in prima lettura assai brusca, ma a ben vedere perfettamente conseguente, le Terrazze. Dal punto di vista tematico, l’indicazione è come sempre al tempo stesso chiarissima e insoddisfacente. Scrive l’artista: “Ho raggiunto a piedi il castello di S. Jorge alto sulla città. Mi sono seduto a riposare all’ombra di un grande albero immerso nel silenzio. Poi mi sono alzato e ho camminato verso una terrazza sulle mura del castello rivolta all’estuario del fiume e all’oceano. Ho potuto sentire allora i profumi e le fragranze del mattino salire fino a me con l’aria chiara del mare. Ho pensato ai tuffatori soli sul trampolino e ho sentito una breve vertigine” (20).
E testimonia Antonio Tabucchi, compagno di molti viaggi non solo geografici: “Guardo una terrazza di Davide e mi seggo immediatamente su un’altra terrazza. Una terrazza reale che io e lui abbiamo conosciuto in Portogallo. Era una città del nord che si chiama Braga? Era Lisbona? Non ricordo bene. Guardavamo una pianta. Era una buganvillea che attorcigliava i suoi tronchi. Anch’io la vidi, ma non la capii. Evidentemente Davide la capì. Comprese che quei tronchi così contorti erano l’immagine di qualcosa. Della vita? Non voglio fare l’interprete a buon mercato. Della difficoltà di vivere? Forse. Una difficoltà di vivere che si esprime nelle radici e che poi dà fiori violetti. Non voglio dire di più. Era una terrazza. Semplicemente una terrazza portoghese. Era primavera. E io e Davide bevevamo limonata con ghiaccio” (21).
La buganvillea, ancora un vegetale che si trascrive, per lontananze, come una trama simbolica. E un cielo, non più slontanato e mentale come in Celeste impero, ma fatto esso stesso campo d’una visionarietà crescente dalla dolcezza a un disagiato rimuginio affettivo. Benati traccia, intarsia (voglie antiche di tarsia erano in Montagna incantata, 1979, ancor più in L’oro, la peste, 1981, in modo più oscuro e vitale in Paese del calmo mattino; ma convocavano alla loro circolazione spaziale introversa l’eco di altri venti, di altre arie, di colori trepidi non carnali) seguendo le fluenze dell’olio che aggroviglia una straniata strategia nervosa, tendendosi in una sorta di delirio composto, dipanato in filamenti sottili e allentato in brevi dilavamenti. Il colore è un verde abbrunito verso nero, lo stesso di molti Notturni. E’, ancora, protagonista, ma interrogativamente, perché ora fende il campo pittorico, irrompe squilibrante dai bordi o trova diagonali imperfette, o forse armoniche di diagonali solo lampeggiate nella mente, sulla verticale, sull’orizzontale, in un continuo suggestionare e tradire gli assi. A raddoppiare – ancora – accelerando oppure addolcendo questa lettura concitata e, com’era già nei Doni della bassa marea, di captazione ossessiva, in taluni lavori ecco riprendere il costume del dittico: che vale, qui più che mai, postilla contraddittoria, glossa cromatica. Alta sull’orizzontale, poi, negli anni, man mano che il groviglio scritturale si addensa e aggruma in trama invasiva, restituita al ruolo di valva ottica, la superficie seconda – che è, qui, effettivamente l’altra – insinua un clima deliberatamente contraddittorio. Ecco affacciarvisi i pavesi di Kathmandu, nati dal taccuino del 1995, smaglianti di colore e, ancor più, d’una sacralità microemotiva e tersa. Sono colori ma sono anzitutto aromi, come echi di sapore: e segni, soprattutto, di così rappresa certezza da reggere, teorie minime nell’aria, la profondità del cielo e lo stupore d’un divino che è nella natura. Sono teorie cromatiche, e cadenze trasparenti di colore, a intridere d’una diversa spaziosità, aperta, altrimenti profonda, la suggestione di all-over del tracciato a olio.
10. Segrete. Mentre questi processi maturano nello studio, s’insinua nel fantasticare di Benati la questione della pienezza definitiva del segno, una sorta di sottile ossessione hokusaiana per l’imprimersi nell’ambito di convenzione dell’arte di una traccia capace a un tempo di nitido significato e di qualificare fondativamente di sé lo spazio, la visione. E’, a fronte delle variabilità che egli esplorava nelle Terrazze, l’anticorpo a ogni tentazione di cadenza decorativa, e di virtuosismo, stabilito per via di simbolizzazione contraria: la supposizione che il vorticare di quegli spazi possa, senza perdere il valore della distanza, diversamente disporsi intorno a un segno stabilizzante. Ecco, a un punto di questo rimuginare, che la liturgia lunga del procedimento (preparazione della tela, lavorio sulle carte, attese tecniche…), dilatata a dismisura nell’aspettativa degli scarni e sapienti gesti di pittura, fa essere pensiero comunque fabrile, cieco al progetto, ancora un pensiero d’Oriente; eccola instillare il frammento iconografico possibile: lacerto emerso da una memoria che è, ancor più che di figure, di sapori iconografici.
“La xilografia con il brano architettonico e il ganglio visivo della porta dice a Benati che l’addensarsi al centro delle spaziosità delle Terrazze può, ritrovando simmetrie e certezze ripensabili di misura, rastremarsi in un segno di per sé centripeto, capace d’assorbimenti percettivi che il topos della porta carica di sapori ulteriori, insieme più espliciti nelle movenze intellettuali e più imperscrutabili in quelle affettive.
Inoltre, si tratta di un segno dal quale la mano di Benati si ritrae, per astensione pudica dell’arbitrio: dunque, a un tempo più concreto nell’universo dei segni del mondo, e ancor più liberato come assunzione tutta mentale di un’icona” (22).
L’impronta dell’immagine è il vero innesco del suo lavoro. In questo caso, processo significa soprattutto guardarla, guardarla a lungo, farsi involvere dalla sua evidenza ambigua ed echeggiante, perdere per via ogni residuo d’antagonismo fisico con l’opera, ogni remora di sensuosità formale e materiale, ogni suggestione di esotismo sensibilistico, sino a raggiungere per concentrazione estrema una sorta di nudità emotiva. E di quella nudità, dire ogni volta il colore. Ancora è l’olio, in queste pitture, ma saturo di pigmentazioni luminose e inappellabili; un colore che è carattere pieno, stato d’animo e rivelazione. Terre brune con sentori d’arancio, e violetti intonati di giallo, e arancio pieni, e rossi, e quei verdi/blu notturni… la sagoma pare ora affiorare, come per lenta emersione dal colore, ora invece tessersi, lieve e odorosa, tra le stesse fibre della carta che senti carta. Comincia forse, per Benati, il tempo di altre rivelazioni.
11. Notte di un sogno di mezzo inverno. Oggi. Neve a sera. Un altro inizio. Lo stesso Oriente da pittore occidentale, ma il segnarsi del bianco/materia, della sostanza bianca per eccellenza, aria e acqua e luce sulla terra. E un altro notturno d’anima.
Sapendo “…che l’ossessione della realtà porta all’astrazione tanto quanto la sua negazione, e che l’alchimia non sta solo a Fontanellato, e che puoi cercare i nord e i sud, gli orienti e gli occidenti, ma che la pittura ti può inseguire sempre, come un compagno assente” (23).
Note. 16. In W. Guadagnini, 1989, cit. 17. Ibidem. 18. E. Pontiggia, Davide Benati. La bellezza e la psiche, in Davide Benati, catalogo, Effe arte contemporanea, Lecco, 1992. 19. “Cerca, Benati, una sorta di sostanza ambigua, mentale e fisicissima, del colore, e una offerta percettiva sempre meno assettata sui corsi dell’apettativa ordinaria. Sempre cercando differenze ai limiti dell’avvertibile, con vaga strategia morandiana: ma non meno lucida”: F. Gualdoni, Benati. Notturni e suoni, catalogo, Galleria d’arte contemporanea, Rimini, 1993. 20. D. Benati, in Davide Benati. Taccuino di Kathmandu e Terrazze, catalogo, Alberto Peola, Torino 1995. 21. A. Tabucchi, ibidem. 22. F. Gualdoni, Davide Benati. Terrazze, segrete, catalogo, Arte 92, Milano, 1998. 23. W. Guadagnini, Una lettera dai Paesi Bassi, in Davide Benati, catalogo, Chiostro di Maulbronn, 1999.