Pomodoro
Una scrittura sconcertante. Arnaldo Pomodoro. Opere 1954-1960, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, aprile – giugno 2013
Gli esordi di Arnaldo Pomodoro si collocano, alla metà degli anni ’50, nel cuore del dibattito più acceso sull’art autre, alimentato in Italia dalla componente non secondaria delle ipotesi di “nuovo naturalismo” elaborate da Francesco Arcangeli.
Per taluni questo momento è un punto d’arrivo. Per altri, giovanissimi come Pomodoro, è un clima del quale s’avvertono già i sintomi di crisi e la necessità impellente d’un superamento, soprattutto in chiave antiretorica.
In questo momento Arnaldo divide lo studio con il fratello Gio’ e si abbevera direttamente alla lezione di Lucio Fontana, il quale s’è dato il compito di referente morale, prima ancora che stilistico, nei confronti d’una generazione tutta.

Arnaldo Pomodoro, Orizzonte, 1955-2012
È a partire da queste considerazioni che si può intendere la stagione d’esordio dell’artista, quel quinquennio circa in cui egli mette a punto le strutture intellettuali ed espressive del proprio fare.
Il suo vantaggio iniziale è che egli non deve liberarsi, in avvio, di nessun bagaglio e orgoglio disciplinare, di nessuna appartenenza artistica di fatto o d’aspirazione. La sua formazione è tecnica, la sua vocazione prima è la scenografia, e i suoi talenti fabrili sono d’orafo valentissimo. Il fantasma della scultura e della sua controversa storicità non incombe sui suoi esperimenti; non, soprattutto, la questione di liberarsi della concezione monumentale e in genere statuaria, con quanto di figurale ciò porta inevitabilmente con sé.
Egli ragiona d’un formare intimamente diverso, che da subito può consentirsi di agire in una zona intermedia tra la consistenza plastica degli enunciati e la filigrana di pagina della superficie, con tutto quanto ciò implica sul piano della virtualità, dell’implicita astrazione.
Ama il segno, Pomodoro, il suo tessersi minuzioso e preciso, il suo dipanarsi per aggregazioni fluide e teoricamente indeterminate sino a farsi visione. Ama quel decidersi dello spazio per espansione e proliferazione.

Arnaldo Pomodoro, Il giardino nero, 1956
La scoperta di Paul Klee, per lui, ha un valore speciale. Sono gli anni, quelli, in cui la cultura italiana va scoprendo o riscoprendo tumultuosamente la dimensione internazionale che i decenni del fascismo e il provincialismo persistente avevano messo in ombra. A Milano molto si parla di surrealismo, il Movimento nucleare di Enrico Baj e Sergio Dangelo getta, attraverso la rivista “Il Gesto” e i rapporti con la francese “Phases”, ponti stabili con il tachisme francese e nordico, gallerie come il Milione (che nel già 1951 pubblica una cartella con sei tavole di Klee), il Naviglio di Carlo Cardazzo e lo spazio di Arturo Schwarz aggiornano rapidamente l’informazione sull’avanguardia storica.
Klee, autore segreto più che carismatico, non è forse la figura primaria cui tutti guardano. Ma è una sorta di specchio perfetto dei rimuginii intellettuali di Pomodoro. Il giovane artista scopre il valore di quella che Klee chiamava “la disciplinata riduzione del tutto a pochi tratti”, il ritrovare una primarietà stupefatta, la luce d’una intuizione lirica pura, dopo un processo feroce e nitido di decantazione, e selezione, e concentrazione. E intuisce che la sua strada d’artista non sarà quella di cercare modi ulteriori d’una immutata ragione d’arte ma, come sintetizzerà perfettamente il compagno di strada Piero Manzoni, dare opere che “non si accontentano di “dire diversamente”: dicono nuove cose”.
In effetti, la serie di mostre che segnano il debutto di Pomodoro tra il 1954, alla Galleria Numero di Fiamma Vigo a Firenze, e il 1955, all’Obelisco a Roma, al Cavallino a Venezia, al Naviglio a Milano, sono lette da subito nella chiave d’una anomala in quanto inedita, ma potente, arte di segno.
Certo Arnaldo, come Gio’ e il sodale Giorgio Perfetti con cui in più d’una occasione espone sotto la sigla collettiva di gruppo 3P, è nutrito di cultura altoartigianale e intimamente decorativa. Ma ciò che periodicamente si presenta come una sorta di febbre terzana dell’arte, il disdegno per le arti applicate da parte dei vessilliferi della ricerca “pura”, allora è in una felice fase silente, grazie al clima fervido di integrazione delle arti che le grandi Triennali degli anni ’50, e la militanza autorevole di Gio’ Ponti, vanno tenendo ben vivo. E poi c’è l’esempio indiscutibile di Fontana, il quale non fa mai questione di ricerca o di decorazione, che in quel tempo zittisce con le epifanie del suo genio ogni obiezione possibile in merito.

Arnaldo Pomodoro, Estensione vegetale n. 2, 1957
Dunque, il fatto che per realizzare i propri rilievi Pomodoro assuma deliberatamente ed esplicitamente tecniche tipiche dell’oreficeria, a cominciare dalla fusione dall’osso di seppia, desta più analisi affascinate che perplessità.
Non è un caso che sia proprio Ponti a presentare la mostra al Naviglio che segna l’affermazione di Arnaldo e Gio’ sulla scena milanese, offrendo una lettura ricca di spunti acuminati.
“Invece di chiamarle sculture vorrei tentare definizioni più pertinenti – scrive Ponti –, dirle “composizioni spaziali” o delle “spazialità” o “spazialismi” o “figurazioni spaziali” o delle “fantasie spaziali”. Insomma se nella scultura è questione di corpo e di volume, dove lo spazio è escluso dal volume, qui è questione di spazio e non di corpo né di volume, oppure è questione di un volume ideale nel quale è incluso lo spazio”. Queste opere “di arduo gusto”, aggiunge, “si irraggiano nello spazio”, e nascono destinate per congeneità a implicarsi con lo spazio architettonico, con l’ambiente. Quanto in là stia vedendo il grande architetto è stupefacente, se di pensa al seguito della vicenda di Pomodoro: di lì a due anni, egli starà già riflettendo sull’intuizione prima delle Colonne.
Certo, l’insistere sugli “spazialismi” è in parte da ascrivere al un fattore di contesto, essendo il Naviglio il tempio del Movimento spaziale coagulatosi intorno al padre nobile Fontana, che da Emilio Scanavino a Cesare Peverelli va indicando proprio la strada di una pittura di “segni indipendenti” con implicazioni anche di tipo simbolico, cui per certi versi Pomodoro potrebbe essere associabile.
Ma l’atipicità dei materiali, argento e piombo e stagno, e soprattutto il tessersi minuzioso delle trame che si organizzano lungo un orizzonte ideale, con un evidente sviluppo da sinistra a destra che riporta alla logica della scrittura, schiudono prospettive tutte diverse, sorprendenti per la critica stessa e per il milieu artistico ufficiale. Nessuna dipendenza, soprattutto nessun complesso di inferiorità queste opere manifestano nei confronti del pittorico, e contemporaneamente solo una blandissima parentela con lo sculturale nell’accezione di cui allora si dibatte.
Conta piuttosto la lezione di Fontana sulla fisiologia del segno tra corporeità e vuoto, quella di Burri sulla presenza concreta della materia che qualifica l’immagine. E Klee, naturalmente, il cui tramare segni è il modo, l’unico possibile, d’essere artista, ma in quanto “poeta, esploratore della natura, filosofo”.
L’intonazione prima di lettura viene dall’approccio poetico di Leonardo Sinisgalli, poeta altissimo e uomo d’arte, in occasione della mostra all’Obelisco a Roma. Essa legge le opere in chiave di “ornamento pensoso”, da cui scaturiscono “segni non troppo lontani dal simbolo, ma neanche troppo vicini. È questa una scrittura sconcertante, che sentiamo densa di un fascino nuovo, quasi magnetico”. E subito dice di “geroglifici”, per suggerire più la presenza straniata che la foggia, più lo svolgimento in una rete precisata di relazioni crescenti in discorso visivo che l’identità dei singoli elementi.

Arnaldo Pomodoro, Tavola dei segni, 1957, II, 1957
Tale intonazione è ripresa esplicitamente, a partire dall’impiego dell’espressione intuitiva “geroglifici”, dal testo che Marco Valsecchi premette alla mostra veneziana al Cavallino: “Nulla di casuale o di momentaneo li porta a maturazione, come avviene invece per certi castelli fatui della geometria o ghirigori ammatassati dalla noia. Ma il fiorire – e nemmeno tanto meccanico, a forza di echi o di più banali surrogati – di una tensione lirica cresciuta lungo il filo di una aspettazione poetica che all’improvviso, come una sorta di liberazione, scandisce segni rilievi coaguli e filamenti con lo stesso frenetico e silenzioso moto di un ago elettrico che avverta le più sottili rigature della fantasia. Si pensa che Klee, quando disegnava le sue “cattedrali gotiche” o “pagode” microscopiche, seguisse lo stesso procedimento, lucido e sospeso all’istantaneità dell’illuminazione: “Io potrò dunque farvi intravedere una luce ricca e irradiante…” (allocuzione al Bauhaus di Weimar, del 1924).
Un ornamento? Diciamolo pure; non nascondono difatti di essere oreficerie, gioielli. Ma direi anche una “scrittura”, senza magie e simbolismi a modo di certe striature del marmo, di certe venature addentellate delle foglie, imprevedute come fossero capricci della natura, e invece legano insieme la sostanza e le danno forma”.
Dunque nessuna remora critica nell’accettare opere nascenti da una tecnica altoartigianale, e invece lo stupore felice derivante dal constatare come queste opere, proprio perché nate extra moenia rispetto al compound ordinario della scultura e della pittura, impongono la forza sobria ma potente di una loro asciutta, barbarica, aliena bellezza.
Un altro elemento tien conto notare subito, perché emerge con forza sin da queste prime prove del 1955. La crescita d’immagine che Pomodoro attua nei suoi rilievi è una forma di rastremata fisiologia. Il tempo del fare è lento, distillato, assapora la durata e il pensiero che essa consente. Ed è, soprattutto, a pieno titolo un fare, dunque non un eseguire. Non esiste progetto possibile. Il processo prevede una successione di scelte, di consapevolezze progressive e impreventive, perché è – senza remore intellettuali – un formarsi dell’immagine, che richiede auscultazione e complicità emotiva tanto quanto delucidazione mentale.
Non è concepibile un disegno preliminare: l’opera stessa è il suo disegno. Del resto “la forma del segno è il suo senso: questa è la paternità che riconosco soprattutto a Klee”, sintetizzerà anni dopo lo scultore.
Certo, Pomodoro disegna, e disegna molto, in quella stagione. Ma si tratta di un processo parallelo e complice, che saggia qualità spaziali, condizioni topiche, densità e persistenze segniche affini, in modo completamente non gerarchico. Che il segno sia fisicamente materiato oppure tracciato su un foglio, nulla cambia dal punto di vista del pensiero e del senso del fare.
Lo svolgimento orizzontale anche marcatamente espanso e una filigrana latamente paesistica caratterizzano questo tempo primo di Pomodoro. Il segno vi è nitido, scandito, poggiante sullo spazio di fondo, al quale non si sente ancora connaturato. Lo sviluppo immediatamente successivo è proprio il porre in rapporto essenziale la trama dei segni e la sostanza plastica dello sfondo, come se essa vi affiorasse in una sorta di agonistica spinta vitale, o vi si depositasse come su un paesaggio estraneo ma ben presente.
Nelle due versioni di Orizzonte, 1956, l’argento (“questo metallo magico (non spreco a caso l’aggettivo che del resto mi ripugna), questo liquido talmente anziano da non aver più energia per muoversi, opaco e lustro”, scrive Sinisgalli) abita la brutalità inestetica del cemento e la distanza opaca del bronzo: e il cemento è protagonista del capolavoro di quel momento, Il giardino nero, dalle tonalità assorte e scontrose. Pomodoro non sfrutta la captazione estetica dei materiali, come pure la natura specifica e la filigrana evocativa dell’argento suggerirebbero. Anzi. L’argento è per lui materia fluente e sottile, è la possibilità di tracciare, di serrare trame che s’infittiscono e si dilatano, espandendosi sulla materia ospite come escrescenze proliferanti, per aggregazioni e strutturazioni. Proprio il carattere dell’organizzazione, il disporsi per cadenze orizzontali/verticali disorientate e per grumi circolari radianti, e la sua progressività diventano, nella riflessione di Pomodoro, il fattore di crescita autonomo e d’equivalenza naturale che, senza pagare scotto alle nuove tentazioni naturalistiche circolanti, gli consente di dar corpo a una intensa biologia del segno d’equivalenza naturale: a ciò, certo, tende la schiusura di un nuovo fronte inventivo, quello che tra 1956 e 1957 dà le serie compatte Estensione vegetale e Situazione vegetale.

Arnaldo Pomodoro, Una scelta, 1957
Anno cruciale è il 1957. Pomodoro sottoscrive il manifesto Contro lo stile, espone alla mostra “Arte nucleare 1957” a Milano, e pubblica un’opera in “Il Gesto”, la rivista del movimento. Contemporaneamente stringe rapporti intensi con Gastone Novelli e Achille Perilli pubblicando Lo stagno: omaggio a Kafka sul primo numero della rivista “L’Esperienza Moderna”, un altro dei capisaldi dell’avanguardia del momento. Non solo il suo lavoro è ampiamente riconosciuto, ma è letto come una delle eccezioni fondamentali all’informale ormai declinante, come uno degli snodi problematici maggiori in seno alla generazione emergente che annovera esperienze diverse, da Klein a Manzoni, da Saura ad Arman, da Baj a Novelli, da Mack a Tinguely. Gli anni immediatamente successivi lo vedranno infatti presente ancora in “Il Gesto” e in altre riviste di punta, da “Azimuth” di Manzoni e Castellani a “Zero” di Mack e Piene.
Più di questo, tuttavia, conta l’evolversi delle riflessioni dell’artista intorno al segno e al rapporto che esso instaura con il suo luogo. La tissularità sottile dell’argento, il suo stagliarsi sul supporto, tende a trascolorare in favore di una più coinvolta congeneità tra segno e materia, in una continuità plastica che ora rinuncia apertamente alla grazia, si fa pressione endogena a far emergere un’immagine possibile tra biologico e tellurico. Il segno è ora meno grafia primaria e più differenziale fisiologico della materia: e cadenza, e relazione, e – verrebbe da dire – oscuro suono.
La mostra determinante di questo tempo è ancora all’Obelisco di Gaspero Del Corso e Irene Brin, a Roma. Il testo introduttivo di Guido Ballo decifra esattamente il mutamento in atto: “la concretezza della materia dà ad Arnaldo Pomodoro una nuova consistenza pittorica e plastica a un tempo: piombi fusi, sbalzati, modellati con gli stracci e con le mani, fusioni in negativo sulla materia, cementi spesso lasciati naturali e altre volte mescolati con piombaggine o con ossido di ferro o con la calce, in modo che certi pezzi acquistino valore di muri; rami a liste, intesi come colore, zinchi, stagno: tutto questo in rapporti di materie opache, lucide, grezze, per effetti cromatici sempre diversi”.
Postillerà anni dopo Roberto Sanesi, in passo di poesia: “… e Arnaldo si muoveva nei concetti, / nei solchi tesi inattesi dell’agrimensore… / … e polvere di ferro e piombo e stagno / (continuum) / dalle tavole”.
Le due versioni di Tavola dell’agrimensore segnano in effetti il momento più alto di questo transito. Di passaggio, in effetti, si tratta. Il primo approdo sono le declinazioni di Tavola dei segni, che in quello stesso 1957 avviano la riflessione di Pomodoro verso un’idea di superficie come muro, ovvero come pagina fisica d’un segnare possibile, e di segno come irrelata, non convenzionale articolazione d’un senso possibile.
Molto si ragiona di “poetica del muro”, in quel tempo. Da Burri a Rotella, da Marca-Relli a Scarpitta, dal Manzoni dei primi Achromes a Novelli che sta lavorando al libro-opera Scritto sul muro, per non dire di Antoni Tàpies, che proprio nel 1957 ottiene l’ambìto Premio Lissone, il muro è il precipitato concettuale di un segnare che si vuole fisico, pienamente calato nella materia, e dotato d’un’identità non decifrabile forse, ma determinata. Nel 1958 André Peyre de Mandiargues pubblica in Le Belvedère il fondamentale saggio Le Mur, in cui scrive del modello che gli artisti trovano ora non nella natura, ma “in un piano artificiale alzato continuamente davanti allo sguardo umano, nella cosa che occlude per eccellenza: il muro”.
Le materie opache di Pomodoro, il piombo in testa. articolano dunque uno spalto verticale fisicamente presente in cui il segno può dipanarsi secondo un’iterazione fitta d’interne relazioni, tra regolarità e varianti, tra umore biologico e astrattezza di codice tecnologico, tra filigrana di scrittura e deriva definitiva di significato.
“Il muro ha un suono chiuso che s’involge / tra gli spalti induriti, suono cupo / al giro di altre notti / impreveduti astri. / C’è un’aria di polvere tombale, oggi, / corrosa pomice sparsa: nel meriggio / si tendono le crepe, i ciuffi secchi…”, scriverà Ballo.
La “scrittura sconcertante” si fa, a pieno titolo, tracciato di segni. E preciserà Francesco Leonetti, il sodale e interlocutore privilegiato d’una vita, ça va sans dire ancora un poeta: “Tu dunque hai portato nella scultura, sopra le superfici di vario materiale, una trafittura o estensione di tocchi, incavi, nodi, punti, che si presentano come un linguaggio illeggibile: sta fra quello protostorico e quello della profondità inconscia, è cifrato come da un romantico o da un poeta ermetico, tiene del tratto infantile e dell’ideogramma”.
Il 1958 porta nuove personali, ancora al Naviglio, al Kölnischer Kunstverein, alla Helios Art di Bruxelles, alla Galerie 22 di Düsseldorf, in un orizzonte che si fa per Pomodoro, da questo momento, definitivamente internazionale.
Taluni leggono in questi tracciati di segni antichi umori sapienziali. È il caso di René Guiette, il quale con l’abituale nom de plume di Blaise Distel accompagna così la mostra del 1959 al Centre International d’Art Contemporain di Parigi e Bruxelles: “Il piombo che egli usa spesso è ancora e sempre una semente metallica e se, come si dice nei testi antichi, è analogo al grande Caos saturnino, Arnaldo Pomodoro ne trae segni magnifici, ricordandosi senza saperlo “che non vi è certezza completa se non nelle arti manuali come quella del metallurgo” (Jérôme Cardan). … È per questo che le opere di Arnaldo Pomodoro rivestono spesso l’aspetto di crateri spenti o in eruzione, luoghi ove l’occhio dell’uomo percepisce, quando può, come lo zampillare della materia prima, l’esteriorizzazione delle pulsazioni del cuore vivo del pianeta”. E d’altronde già nel 1956, per la mostra veneziana al cavallino, Alfonso Gatto evocava “forze ignee antichissime” .
Ma la chiave per leggere queste opere di fine decennio, che affrontano anche una misura pienamente architettonica in prove come La colonna del viaggiatore, 1959, I, e La porta, è quella dello schema scritturale pre- o postalfabetico, in cui conta la tensione continuamente rinnovata tra pulsione irrazionale e controllo intellettuale, tra, per usare i termini spesi nel 1959 da Abraham A. Moles per la mostra parigina, “ermetismo” e “accessibiltà”.
“Per lui la scultura è uno schermo, appunto un luogo dove rappresentare la propria coscienza; il piano della scultura è una metafora della memoria e della consapevolezza, e dal mondo dell’inconscio, dagli spazi del rimosso affiorano raffigurazioni e segni, frammenti di “scrittura” e impianti di paesaggio”. Così Arturo Carlo Quintavalle sintetizza questa stagione prima di Pomodoro nella prima ampia ricostruzione di quel momento, al CSAC dell’Università di Parma, 1990.
È una scultura silenziosa e introversa, intimamente antiretorico, poetica ma a ciglio perfettamente asciutto. Una scultura capace della modernità estrema, perché consapevole della propria fondante ragione atavica.
I testi citati sono, nell’ordine: Paul Klee, Diari: 1898-1918, Il Saggiatore, Milano 1976; Piero Manzoni, Dada Maino, catalogo, Gruppo N, Padova, 1961; Gio’ Ponti, Arnaldo e Gio’ Pomodoro, catalogo, Galleria del Naviglio, Milano, 1955; Leonardo Sinisgalli, Arnaldo e Gio’ Pomodoro, Giorgio Perfetti (Studio 3P), catalogo, Galleria dell’Obelisco, Roma, 1955; Marco Valsecchi, Arnaldo e Gio’ Pomodoro, Giorgio Perfetti (Studio 3P), catalogo, Galleria del Cavallino, Venezia, 1955; Arnaldo Pomodoro in Flaminio Gualdoni, Pomodoro. Lo turbo e ‘l chiaro, in Arnaldo Pomodoro a Varese, catalogo, Electa, Milano 1998; Guido Ballo, Arnaldo Pomodoro: terre e metalli, catalogo, Galleria dell’Obelisco, Roma, 1957; Roberto Sanesi, Improvviso n. 8 per Arnaldo, in Otto improvvisi, Maestri, Milano 1965; André Peyre de Mandiargues, Le Belvedère, Grasset, Paris 1958; Guido Ballo, Il muro ha un suono. Ad Arnaldo Pomodoro, 1960, in Posta per gli amici, Edizioni del Cavallino, Venezia 1966; Arnaldo Pomodoro e Francesco Leonetti, L’arte lunga, Feltrinelli, Milano 1992; Blaise Distel, Arnaldo Pomodoro, catalogo, Galerie Internationale d’Art Contemporain, Paris, 1959; Alfonso Gatto, Gio’ e Arnaldo Pomodoro, catalogo, Galleria del Cavallino, Venezia, 1956; Abraham A. Moles, Réflexions sur l’arte des Pomodoro, catalogo, Galerie Internationale d’Art Contemporain, Paris, 1959; Arturo Carlo Quintavalle, Arnaldo Pomodoro. Opere dal 1956 al 1960, catalogo, Electa, Milano 1990.
In generale, cfr. Laura Berra e Bitta Leonetti, Scritti critici per Arnaldo Pomodoro e opere dell’artista (1955 – 2000), Lupetti, Milano 2000; Flaminio Gualdoni, Arnaldo Pomodoro. Catalogo ragionato della scultura, 2 voll., Skira, Milano 2007.