Casanovas
Claudi Casanovas, in “La Ceramica”, 16, Milano, marzo 2013
Piastre attorte, forme cave, anfore come cresciute entro concrezioni petrose, quasi fossero memorie tutte della solidificazione atavica della terra. Quando Claudi Casanovas esordisce sul palcoscenico artistico internazionale con le personali del 1988 allo Hetjens Museum di Düsseldorf e alla Galerie Besson di Londra, le idee cardine del suo lavoro sono già perfettamente precisate.
Egli sa bene, cioè, cosa non vuole che la sua scultura sia. La sua formazione è pienamente quella da ceramista, ma in una chiave problematica che la parte migliore della sua generazione (Casanovas nasce nel 1956) condivide, e che da un canto riguarda le ragioni del fare più che i modi, e d’altro canto intende la disciplina come pratica sperimentale apertissima e compiutamente piegata all’esito intuìto, non come possesso sapienziale e a qualche titolo sacrale.

Casanovas, Sant Marc
È questione, ormai, di pensare la terra, di provocarne le risposte oltre la declinazione ordinaria dei saputi. La tradizione puramente demiurgica che prevede la materia sottomessa a un volere, quella che va dall’“argilla nelle mani del vasaio che la forma a suo piacimento” del biblico Siracide alla “man che ubbidisce all’intelletto” michelangiolesca, è stata condotta nel ‘900 a confini ulteriori. Non si tratta, profittando della sua disponibilità a farsi formare, di conferirle simmetria, proporzione, armonia, un logos formale preordinato, secondo l’idea greca e poi tutta occidentale di bellezza cui si perviene, dice Plutarco, “per mezzo di molti numeri che convergono nel punto giusto”.
Essa è, ora s’intende, sostanza dotata di una sua intima ragione formativa, di un carattere e di comportamenti che l’autore deve saper auscultare e dei quali deve rendersi complice. È materia prima nel senso più radicale, perché frequentata nella sua anima, perché capace d’una straniata durezza, perché vocata a una essenziale, ancorché indifferente, presenza.
Ed è materia disposta a farsi opera aperta, nel senso del farsi protagonista di un unfinishing in cui ogni volta terra e autore si incontrano in uno scambio profondo d’umori e condizioni che si rinnova d’opera in opera, che mai si compie definitivamente e sempre si ripropone come situazione reciprocamente interrogativa, in un riverbero che trascorre da un lavoro all’altro.
Certo, esiste e permane una tradizione formale, ed è ben presente e radicata. A partire dall’idea sorgiva del vaso, da quella del blocco da costruzione. Ma di ciò importa, nella ricerca del ‘900 maturo, soprattutto l’implicazione antropologica, la primarietà dello schema formativo, non la pletora di declinazioni meramente estetiche che ne son discese.

Casanovas, Creueta
Casanovas muove da qui, da un’auscultazione della terra che agisce indifferente all’estetica ordinaria, e che della forma scava i radicamenti nell’interna energia, nella vitalità oscura e potente, in una necessità di presenza che ancora risente della sua primarietà tellurica. Ogni volta, ogni volta, in un processo che è lo stesso vivere dell’artista e dell’opera.
Egli pensa la terra come facente parte del processo di modificazione senza sosta per cui il mondo è solidificazione del magma originario, fuoco che si coagula facendosi materia inquieta e potente, trasmutazione che, per citare Bachelard, “fa scaturire la bellezza da un fondo tenebroso e impuro”: se, naturalmente, s’accolga la bellezza intrinseca della materia, il suo stesso darsi come esistenza flagrante.
Non si tratta, per Casanovas, di trascendere la propria materia, e men che meno di forzarla su un piano di finzione. Semmai, egli ne accelera le qualità minerali, facendola crescere dal suo interno oscuro e genetico e trovando il punto limite in cui essa è ancora pienamente grumo, cretto, colatura, concrezione, e già forma possibile dell’umano sorgivo: nelle Bols come nelle Gerres, nei Blocs come nelle Pedres Blanques.
Tecnicamente, niente gli è estraneo. La sottigliezza e il senso del naturale maturato nei fondamentali soggiorni giapponesi, il valore di primarietà della tradizione primitiva e popolaresca, le combinazioni ardite di sostanze diverse, gli artifici tecnologici inediti, in una coscienza della chimica del materiale accelerata sino a farne in se stessa tensione poetica. La sapienza tecnica spinta sino al grado estremo, ma insieme l’indifferenza assoluta al talento, messo in scacco da un atteggiamento antiretorico inflessibile.

Casanovas, Als Vençuts
Altri pensieri, altre pulsioni che non sono l’orgoglio esteriore della bellezza animano il corso di Casanovas. Nel grande dibattito della scultura contemporanea egli si colloca sul versante di coloro che affrontano la materia come materia, i Serra, i Rückriem, gli Spagnulo: su tutti, Chillida, maestro necessario per ogni autore spagnolo, modello per chiunque voglia fare, dell’opera, un luogo primario.
Due sono le grandi figure della coscienza che Casanovas mette in campo. Un immaginario di tipo tellurico, geologico, che tenta il punto massimo di congeneità tra le proprie opere e il paesaggio naturale, da cui nascono e a cui, intimamente, ritornano. Altrimenti, l’umore archeologico per cui l’opera pare come emergere in quanto segno antropico atavico, restituito dal ventre della terra dopo un processo che già l’ha in parte nuovamente inglobato nel naturale.
È una cifra duplice ma non divergente. Proprio negli anni ultimi due opere di straordinaria intensità hanno visto incrociarsi tali aspetti.
Il Memorial als Vençuts di Olot, il luogo natale di Casanovas, è un enorme blocco naturale di terra fatto scultura. Un blocco teoricamente prelevato nella sua indifferenza formale, collocato come imponente antimonumento visibile solo dalle fessure di una recinzione opaca che lo circonda, in una situazione che renda acuminato lo sguardo. Naturalmente pervenire a realizzare una zolla di quindici tonnellate d’aspetto anestetico (una volta aggregata, prima del fuoco la massa è stata congelata e poi lasciata cadere da una certa altezza, perché l’aspetto finale risentisse pienamente della gravità, della spinta della terra a tornare alla terra), come se fosse prelevata dal suolo e semplicemente cotta, comporta una quantità straordinaria di artifici tecnici e fabrili, che Casanovas ha affrontato partitamente, in qualche caso concependo e saggiando soluzioni inedite.
A parte le implicazioni “eroiche” ascrivibili alla tipicità dell’impresa, così come nel caso dei lavori di dimensione padroneggiabile l’artista ha scelto qui di farsi complice anziché concettualmente artefice dell’assunzione di forma da parte della materia, restituendo al paesaggio un accidente plastico che si qualifica e agisce in virtù della sua anima a un tempo artificiosa e naturale.

Casanovas, Gerres
Nella serie Camp d’urnes l’innesco inventivo è un esplicito riferimento dall’archeologia, e si riferisce ai ritrovamenti della tarda età del bronzo in cui le comunità umane passano dall’inumazione alla cremazione e alla conservazione delle ceneri in urne interrate. Qui è l’antropico, l’idea stessa del corporeo, che torna alla terra, che si conglomera con essa, tendendo a deidentificarsi in quanto forma e a restituirsi in quanto materia primaria. L’urna si fa, anche qui come nell’opera grande di Olot, memoriale dell’umano, impronta che tende alla pietrificazione, immagine di un’assenza.
In entrambi i processi è essenziale l’aspetto di impurità della terra, il suo mescolarsi ad altre materie organiche e inorganiche facendosi portatrice d’una qualità sostanziale di brusca, scabra evidenza, che la tattilità dello sguardo percepisce nella sua potenza non mediata.
Il procedere di Casanovas si conferma, in questi lavori della piena maturità, capace di primarie ma potenti suggestioni simboliche. La pienezza di senso che essi irradiano si svolge tutta sulla polarità tra vitalità di formazione e regresso all’utero della terra – che è un compimento, non la morte secondo i codici della civilizzazione – e all’unità indistinta dell’originario.
Solo così, parrebbe avvertire Casanovas, si può leggere l’antico ammonimento del sapiente greco: il “nulla di troppo” è inteso non come medietà equilibrata, ma come ricerca lucida e feroce dell’essenziale.
Che è, di fatto, il principio del suo fare arte. Sciolto dall’ansia di modernità simulata e autoreferente tipica del compound d’avanguardia, è un fare, questo, restituito alla forza atavica della pronuncia prima del senso.